stralci da “il capitalismo e la crisi”. Scritti scelti (di Marx)
a cura di Vladimiro Giacchè.
(I pezzi in corsivo segnalati da (ndr) sono brevi note di redazione)
La crisi “impossibile” e la ricerca del colpevole.
... Marx individua nella ricerca moralistica del colpevole della crisi (lo speculatore)
l'altra faccia della medaglia della fede ingenua nell'evitabilità della crisi. Tale fede
riposa sulla convinzione che la crisi sia qualcosa di estraneo al normale
funzionamento dell'economia capitalistica. Secondo questa illusione ideologica, la
crisi viene sempre da fuori, è una patologia esterna al sistema. Quindi è dovuta ad
errori o colpe specifiche di qualcuno.
Marx: “la speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è
in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e
proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi
stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a
quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione che a sua
volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi
dell'osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della
produzione non appare come conseguenza necessaria della stessa precedente
esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione”.
Alle radici delle crisi: limiti e contraddizioni del capitale
Per Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizione tra lo sviluppo
delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Il modo di
produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze
produttive. D'altro lato, i rapporti di produzione e di proprietà che lo
contraddistinguono (ossia il lavoro salariato, l'appropriazione privata della ricchezza
prodotta, e l'orientamento della produzione al profitto anzichè al soddisfacimento dei
bisogni sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle stesse forze produttive,
creando sovrapproduzione di capitale (un accumulo di capitale che non riesce a
trovare adeguata valorizzazione) e sovrapproduzione di merci (un accumulo di merci
che non riescono ad essere vendute a un prezzo tale da remunerare adeguatamente il
capitatale impiegato per produrle).
(ndr) Per il capitale la produzione ha come solo e unico scopo il plusvalore e quindi
il profitto, non gli interessa il soddisfacimento dei bisogni sociali ma neanche il
soddisfacimento dei bisogni individuali, non gli interessa la produzione di valori
d'uso se non come mezzo dalla cui vendita realizzare il profitto, che ha sua volta è
determinato dal plusvalore contenuto nelle merci prodotte.
Chiaramente parliamo di sovrapproduzione relativa di merci, perchè esse non sono
affatto sovrabbondanti rispetto ai bisogni sociali, ma lo sono rispetto alla
remunerazione del capitale investito. Per il capitale questa è la crisi, non nel senso
che non può più produrre e/o non può più vendere, ma nel senso che quanto può
realizzare dal capitale investito e dalla vendita delle merci non è per lui conveniente
per mantenere e anche aumentare i suoi profitti.
Quindi quando noi diciamo, banalmente, che per es. l'Ilva non è vero che è in crisi,
diciamo da un lato una cosa vera secondo criteri logici, dall'altra diciamo una cosa
falsa perchè esula dalle leggi del capitale.
Scrive Marx: “non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla
popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per soddisfare in
modo decente e umano la massa della popolazione” Il punto è un altro: “vengono
prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di
consumo peculiari della produzione capitalistica, realizzare il valore e plusvalore in
esse contenuti e riconvertirli in nuovo capitale”.
Sono insomma i rapporti di produzione (e quindi quelli di distribuzione e di
consumo) che caratterizzano la società capitalistica a rappresentare il principale
ostacolo allo sviluppo delle forze produttive.
La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione si manifesta, e al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si
ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale: “le crisi sono sempre
soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eurzioni
violente che servono a ristabilire l'equilibrio turbato” (Marx). Profitto e
accumulazioni vengono ripristinate per mezzo della distruzione di capitale e di forze
produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti
e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e
materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.
(ndr) Dal superamento delle crisi – ma diremmo anche dalla crisi stessa – il capitale
nel suo complesso ci guadagna: ha stabilito un livello salariale più basso e che resta
tale anche passata la crisi, per la crisi e in nome della crisi ha aumentato lo
sfruttamento della forza lavoro (aumento dei carichi di lavoro, aumento dell'orario
di lavoro, e quindi aumento del tempo di lavoro gratis per il capitale, aumento del
lavoro con meno operai di prima, ma anche attacco alle tutele dei lavoratori: Fiat
insegna, ecc.), questo livello non sarà riportato ai livelli precedenti, anche una volta
superata la crisi, ma farà attestare ad un nuovo livello di sfruttamento e di salari che
farà da “guida” per tutti.
Certo se il capitale nel suo complesso ci guadagna, al suo interno vi è una
distinzione, i grandi capitali ci guadagnano, i piccoli o medi possono perdere,
vengono o distrutti o assorbiti dalla concentrazione del grande capitale.
(Marx) “La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel
concetto del capitale stesso... il capitale tende a trascendere sia le barriere e i
pregiudizi nazionali, sia l'idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale,
modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale
riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è
distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le
barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l'espansione dei bisogni, la
molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e
dello spirito”.
Ma l'universalità alla quale il capitale tende irresistibilmente “trova nella sua stessa
natura ostacoli che ad un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso
stesso è l'ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al suo
superamento”. “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è il
fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e
punto d'arrivo, come fine della produzione” (Marx)
La crisi è il momento in cui si manifestano le contraddizioni del capitalismo e i limiti
allo sviluppo del capitale che sono connaturati al capitale stesso.
(ndr) Da questo ne viene: primo, che i fautori del “mercato” (anche nel campo della
sinistra) come risolutore/regolatore della crisi arrivano quanto meno in ritardo: il
capitale ci ha pensato prima di loro; secondo che il mercato creato dal capitale ha
esso stesso un limite, che quindi accompagna le crisi non le risolve.
Secondo, il capitale per sua necessità è internazionale, è mondiale; questo fa sì che
proprio i capitalisti siano quelli che non guardano in faccia a “nessun colore della
pelle”, ma solo nel senso che distrugge barriere e pregiudizi nazionali in quanto
ostacoli davanti alla sua espansione.
Terzo, nello stesso tempo il capitale mette in ridicolo ogni tentativo di riproduzione
di un vecchio modo di vivere, di “soddisfacimento tradizionale”. Distrugge tutte le
illusorie e stupide idee dei critici moralisti del capitale, perchè ogni “vecchio modo
di vivere” è già rivoluzionato e la ruota della storia non può andare indietro, perchè
anche i settori che vengono proposti come alternativi alla disumanità del capitale nel
momento in cui il capitale ci mette i suoi tentacoli, ne fa fonte di profitto e non di
soddisfazione di bisogni e anzi se la soddisfazione dei bisogni si presenta
incompatibile con il suo profitto, distrugge i bisogni.
Queste stupidaggini che si rinnovano soprattutto nella crisi, si presentano in ultima
analisi anche reazionarie, nel senso che sono conservatrici perchè vogliono
contrastare non il limite del capitale ma il suo “merito storico”, lo sviluppo delle
forze produttive.
Un fattore essenziale delle crisi secondo Marx è rappresentato dalla capacità di
consumo dei lavoratori. Questa capacità è a suo avviso strutturalmente limitata. Per
un motivo ben preciso: il valore di ogni merce è determinato dal lavoro impiegato in
media per produrla, e i profitti del capitalista derivano dal plusvalore, ossia dal fatto
che al lavoratore è pagato non l'equivalente dell'intero valore prodotto, ma soltanto
una parte di esso (cioè non l'intera giornata lavorativa effettivamente lavorata, ma
soltanto una sua parte)...
(ndr) Questo avviene non certo per cattiveria del capitalista, ma perchè la forza
lavoro da un lato è una merce come tutte le altre, dall'altra è una merce particolare.
Il capitalista, come spiega Marx, va sul mercato e compra la merce della forza
lavoro e la paga (come tutte le altre merci) per il tempo di lavoro necessario a
produrla (tempi di produzione per i beni per mangiare, vestirsi, riprodursi come
classe, ecc.), quindi mette al lavoro l'operaio per il tempo pattuito, per es. una
settimana, e come spiega Engels nella recensione del 1° libro de Il Capitale; “Il
capitalista mette ora al lavoro il suo operaio. Entro un determinato tempo l'operaio
avrà fornito tanto lavoro quanto ne era rappresentato nel suo salario settimanale.
Posto che il salario settimanale di un operaio rappresenti tre giornate lavorative,
l'operaio che inizia il lunedì, la sera di mercoledì ha reintegrato al capitalista
l'intero valore del salario pagato. Ma cessa allora di lavorare? Niente affatto. Il
capitalista ha comprato una settimana di lavoro e l'operaio deve lavorare ancora
anche gli ultimi tre giorni della settimana. Questo pluslavoro dell'operaio al di là del
tempo necessario alla reintegrazione del suo salario, è la fonte del plusvalore, del
profitto, del sempre crescente ingrossamento del capitale”.
... E' questa estorsione di valore supplementare che, secondo Marx, determina i
profitti del capitalista ma al tempo stesso anche i limiti della capacità di consumo dei
lavoratori. Questo perchè “i produttori, i lavoratori, possono consumare un
equivalente per il loro prodotto, soltanto finchè producono più di questo equivalente –
il plusvalore o plusprodotto. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, produrre al
di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i limiti del
loro bisogno” (Marx).
“La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre da un lato la povertà delle
masse, dall'altro l'impulso del modo di produzione capitalistico a sviluppare le forze
produttive come se la capacità di consumo assoluta della società ne rappresentasse il
limite” (Marx).
Ma... nel contesto dei rapporti capitalistici di produzione ogni politica redistributiva
incontra prima o poi dei limiti insormontabili: essa può essere posta in atto solo
fintantochè non intacchi la profittabilità del capitale.
(ndr) Certo il capitale vorrebbe che i lavoratori, le masse acquistassero più merci,
fossero buoni consumatori, ma non è certo disposto ad aumentare il salario dei
lavoratori; anzi tende costantemente e soprattutto nella crisi, in vari modo, ad
abbassarlo, scavandosi in questa maniera la fossa sotto i piedi (ma non può fare
altrimenti!). Chiede se mai ai governi di sostenere i bassi redditi dei lavoratori,
soprattutto di quelli che licenzia e per licenziarli senza grossi problemi (vedi
ammortizzatori sociali).
La caduta tendenziale del saggio di profitto.
... con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del
capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza lavoro: si verifica
in altri termini, “una diminuzione relativa del capitale variabile (forza-lavoro) in
rapporto al capitale costante (macchinari, mezzi di lavoro)e quindi in rapporto al
capitale complessivo messo in movimento” (Marx). Marx definisce questo processo
anche come una progressiva crescita della “composizione organica del capitale”. Si
tratta di “un'altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale
del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente
uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate
in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro” (Marx). la diminuzione
relativa di capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di
condizioni il saggio di profitto -ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale
complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale
costante) – diminuisca. Questa, in sintesi, la legge della “caduta tendenziale del
saggio di profitto”.
Fattori di controtendenza
Ma la caduta del saggio di profitto è in verità una tendenza alla diminuzione e non un
crollo – tantomeno un crollo improvviso. Questo perchè la diminuzione del saggio di
profitto può essere in parte controbilanciata da altri fattori, a cominciare dalla
concentrazione dei capitali. A causa di tale concentrazione, pur calando la
proporzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un numero maggiore di
lavoratori lavora per un singolo capitalista: aumenta quindi la massa del plusvalore e
questo fa sì che “la massa dei profitti aumenti contemporaneamente e nonostante la
caduta del saggio di profitto” (Marx).
(ndr) Ma altri e ben più importanti fattori agiscono da controtendenza (tenendo
conto che anche la concentrazione incontra un suo limite, dato dal fatto che come
aumenta il numero dei lavoratori, aumenta, sia pur meno, anche il numero dei
macchinari, aumenta il capitale costante), Marx li individua in:
1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento del plusvalore,
soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro (plusvalore assoluto) e
l'intensificazione del lavoro (plusvalore relativo)...
(ndr) oggi è evidente l'utilizzo di questi interventi da parte dei capitalisti per far
fronte alla crisi, in generale utilizzati contemporaneamente, unendo straordinari
diventati “normali”, e quindi un allungamento non “straordinario” dell'orario di
lavoro, a riduzione delle pause nella giornata lavorativa o tra un turno e l'altro - lo
stesso spostamento per es. della pausa mensa a fine turno fatto dalla Fiat, pur se non
allunga l'orario di lavoro, concentrando il tempo di lavoro aumenta di fatto il tempo
in cui nella giornata l'operaio è utilizzabile dall'azienda.
Il capitale poi, per l'intensificazione del lavoro, mette al lavoro anche fior di
scienziati, di tecnici per “inventare” sistemi sempre più micidiali per intensificare i
ritmi e i carichi di lavoro collettivi e individuali, per selezionare l'operaio pezzo per
pezzo per vedere di trarre il massimo di pluslavoro da ogni pezzo e da ogni
movimento dell'operaio. Certo anche questo ha un limite, il limite che il capitalista
non vuole trovarsi di fronte al fatto che tutti gli operai facciano la fine di quel
cavallo che a forza di provare quanto resisteva senza mangiare poi morì al suo
padrone, il capitalista vuole che la maggiorparte degli operai che hanno lavorato
oggi ritornino domani per essere sfruttati e produrre altro plusvalore (benchè
qualcuno se ne può anche perdere per strada...); ma se l'intensificazione del lavoro
unita all'allungamento della giornata lavorativa produce una umanità di invalidi,
sofferenti, purchè producano, non è un suo problema!
Tutto questo dimostra come il capitale più sviluppa le forze produttive, più
ammoderna il modo di produzione, più instaura rapporti di produzione da moderno
schiavismo, il sistema più avanzato fa profitti sulla base dei sistemi di sfruttamento
“più arretrati” (es. la fabbrica ipoa in Cina); più si espande, si globalizza, si estende
in ogni parte del mondo il modo di produzione più all'avanguardia dei paesi
imperialisti più si espandono, si globalizzano, si estendono le condizioni di lavoro in
atto nei paesi più arretrati. Si tratta di un processo inverso, per cui alle leggi più
moderne del capitale si pongono davanti le leggi più schiavistiche per i lavoratori.
Con una questione: che non solo il capitale va a spostare le sue produzioni dove già
esistono queste condizioni di supersfruttamento; non solo importa questi rapporti di
produzione dai “paesi arretrati” nel paese imperialista; ma sviluppa e “inventa” nel
proprio paese i nuovi sistemi di aumento del grado di sfruttamento della forza lavoro
(TMC2, W di Pomigliano).
2) Compressione del salario al di sotto del suo valore... per Marx “il valore della
forza lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del
possessore della forza lavoro.”. D'altra parte però questo valore è storicamente
determinato: “il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di
soddisfarli, è anch'esso un prodotto della storia... dunque la determinazione del valore
della forza lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e
morale” (Marx)... ed è indubbio che la riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni,
in parallelo ai processi di precarizzazione della forza lavoro, collochi i salari attuali in
molti casi nettamente al di sotto del loro valore storico medio dei 2-3 decenni
precedenti. Ciò è ancora più evidente se si tiene conto non soltanto del salario diretto,
ma anche... del salario indiretto... e differito... il prezzo che il capitalista paga per
l'utilizzo della forza lavoro è inferiore al prezzo delle sue condizioni di riproduzione.
(ndr) E' evidente come la crisi viene usata dai capitalisti per ridurre il salario, senza
tanti raggiri: se prima si facevano contratti di lavoro nazionali “svendita” che non
permettevano il recupero salariale, oggi i contratti semplicemente cominciano a non
essere fatti, a partire dal Pubblico Impiego; vengono tagliate voci del salario
falsamente presentate come accessorie, ma di fatto parte integrante del salario; le
politiche che vengono perseguite sia a livello di industriali che di parlamento per
reintrodurre delle moderne gabbie salariali, attraverso al controriforma del CCNL;
ecc.
3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo Marx osserva:
“la stessa evoluzione che accresce la massa del capitale costante in rapporto a quello
variabile, riduce attraverso l'accresciuta forza produttiva del lavoro il valore degli
elementi del capitale costante, e quindi impedisce che il valore del capitale costante –
che pure cresce continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui cresce il
volume materiale del capitale costante, cioè l'entità materiale dei mezzi di produzione
che sono messi in movimento dalla stessa forza lavoro”.
4) La sovrappopolazione relativa... pressione di un gigantesco esercito industriale di
riserva presente nei paesi emergenti: soprattutto in Asia, ma anche nell'Europa
dell'Est. Questo ha comportato una massiccia delocalizzazione di produzione
industriali verso i paesi di nuova industrializzazione... l'accentuata concorrenza di
produzioni realizzate in paesi a minor costo della forza lavoro... ha esercitato una
fortissima influenza calmieratrice sui salari dei paesi industrialmente più avanzati.
(ndr) Ma questo uso della sovrappopolazione relativa per abbassare i salari avviene
anche negli stessi paesi industriali e la crisi lo accentua. Oltre la disoccupazione
classica, negli ultimi anni vi sono due forme in cui avviene questa riduzione dei
salari: una, in vari posti di lavoro la minaccia di licenziamenti porta all'accettazione
di una riduzione dei salari, o, quella più vasta, attraverso la cassintegrazione, o
attraverso i contratti di solidarietà, o attraverso la rinuncia a richieste di difesa
salariale; l'altra, attraverso la espansione, generalizzazione dei rapporti di lavoro
precari, a tempo determinato, in tutti i settori anche in quelli della grande fabbrica
dove erano prima molto rari (la “femminilizzazione del lavoro” vuol dire che il
capitale ha generalizzato tra tutti i lavoratori condizioni di precarietà che prima
erano presenti soprattutto tra le donne lavoratrici).
5) Il commercio estero... In primo luogo, grazie a esso il volume della produzione si
accresce consentendo un ampliamento di scala della produzione e quindi una
riduzione dei suoi costi unitari: questo “rende più a buon mercato tanto gli elementi
del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile
(mezzi di sussistenza necessari” (Marx). In tal modo il commercio estero agisce in
modo favorevole all'aumento del saggio di profitto, per un verso accrescendo il
saggio di plusvalore (in quanto il valore della forza lavoro cala....) e per un altro
diminuendo il valore del capitale costante...
In secondo luogo... “i capitali investiti nel commercio estero possono fruttare un
saggio di profitto superiore” – osserva Marx – perchè qui “si concorre con merci che
sono prodotte da altri paesi con condizioni di produzione meno favorevoli e così il
paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benchè più a buon
mercato dei paesi concorrenti”.
In terzo luogo “per quanto d'altro lato riguarda i capitali investiti in colonia “ Marx
osserva che “essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perchè in quei paesi il
saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minor sviluppo e in secondo
luogo (...) vi è un maggior sfruttamento del lavoro”.
Tutto questo però vale per il breve periodo. Gli effetti di medio-lungo periodo del
commercio estero, invece, non sono favorevoli al saggio di profitto... “lo stesso
commercio estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la
diminuzione in patria del capitale variabile rispetto a quello costante e produce d'altro
lato sovrapproduzione in rapporto all'estero, perciò ha di nuovo alla lunga l'effetto
opposto” (Marx).
6) Aumento del capitale produttivo di interesse... (una parte crescente del capitale
viene destinata) a capitale produttivo di interesse, ossia all'investimento in
obbligazioni o azioni (più in generale, in attività creditizie e finanziarie).
L'importanza assunta da questo fattore negli ultimi decenni è stata notevolissima...
(ndr). Questo sesto punto spiega come l'abnorme sviluppo delle attività finanziarie,
dell'espansione del credito non è altra cosa dal capitale industriale, dal capitale
produttivo, ma è frutto delle leggi stesse del capitale e dei tentativi del capitale di
frenare la caduta del saggio di profitto – anche se la finanza poi si muove anche di
“vita propria” e in alcuni casi può come una potenza mostruosa rivoltarsi contro
singoli esponenti del sistema che l'ha generata. Quindi tutti coloro che a fronte della
crisi che ha visto al suo origine la crisi finanziaria, hanno gridato contro i finanzieri,
i banchieri in nome del capitale produttivo, sono o miopi o in malafede.
Dal boom del credito alla crisi
I cicli caratteristici del credito continuano ad alternarsi, ma con una differenza
significativa: i livelli del ricorso al credito continuano a crescere da una recessione
all'altra e da un massimo di ciclo economico all'altro. In misura sempre maggiore il
livello generale di attività economica (...) viene sostenuto da sempre maggiori
iniezioni di credito da parte del governo e da parte di enti privati.
(ndr) come i capitalisti produttivi non sono estranei alla crisi finanziaria, così non lo
è affatto il governo che dando soldi, finanziamenti “a fondo perduto” agli industriali
sotto varie forme, o dirette (vedi gli acquisti gratis di fabbriche come l'Ilva da parte
del capitale privato, le agevolazioni economiche date ad industriali per investire in
zone “svantaggiate”, ma di grande vantaggio per il capitale) o indirette (vedi sgravi,
ma anche gli stessi miliardi spesi per ammortizzatori sociali), contribuiscono ad
amplificare il credito, ad aumentare il capitale finanziario (chiamiamolo “virtuale”)
rispetto a quello reale.
Le tre funzioni della finanziarizzazione
... La finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga
che ha permesso di non avvertirla – e quindi l'ha cronicizzata.
Questa esplosione della finanza e del credito ha avuto una triplice funzione: 1)
mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori; 2) allontanare nel
tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell'industria; 3) fornire al capitale
in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative di investimento a elevata
redditività. Vediamo più da vicino questi tre aspetti.
1) Credito alle famiglie... il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha
cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall'andamento del reddito da
lavoro... ha alimentato il credito al consumo e la bolla immobiliare, consentendo a
famiglie a basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato... il risultato
era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede
diminuire il proprio salario e però consuma come e più di prima.
2) Credito alle imprese... l'intervento svolto da Sergio Marchionne all'incontro della
Fiat con il governo e i sindacati del 18 giugno 2009 è molto utile per intendere questo
aspetto: “il primo grande problema del settore è quello della sovraccapacità
produttiva (...) la capacità produttiva a livello mondiale è di oltre 90 milioni di vetture
l'anno, almeno 30 milioni in più rispetto a quanto il mercato sia in grado di assorbire
in condizioni normali”... Come hanno fatto le case automobilistiche a tirare avanti in
questi anni in presenza di una sovrapproduzione di questa entità? In tre modi.
Innanzitutto spingendo sul credito al consumo per l'acquisto di autovetture... lo stesso
Marchionne ha affermato che “le autovetture finanziate in Europa sono tre su
quattro”, Poi riscadenzando i propri debiti... Infine facendo profitti non più con le
attività tradizionali ma da operazioni finanziarie.
(ndr) come si vede queste interventi, anche il “credito alle imprese”, costituiscono
poi un “debito” solo per le famiglie con redditi medio-bassi, per i lavoratori, quindi
sul medio periodo vanno ad aggravare i salari dei lavoratori, ad indebitare
enormemente le masse popolari; mentre per il capitale, soprattutto il grande
capitale, nel suo complesso – a parte alcuni singoli fallimenti, costituiscono una
possibilità di difendere i profitti punto e basta. Su questo l'esempio fatto di
Marchionne è rivelativo. Marchionne dice praticamente io su quattro vetture, per tre
se non le vendo non perdo niente; salvo però poi far pesare queste “tre autovetture”
quando deve imporre tagli al salario degli operai e aumento dello sfruttamento in
fabbrica.
3) La speculazione come mezzo per la valorizzazione del capitale... “tutte le nazioni a
produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine nella quale
vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione” (Marx).
Credito e crisi in Marx – e oggi
(Quindi) ...per Marx... grazie al credito i “limiti del consumo vengono allargati dalla
intensificazione del processo di riproduzione, che da un lato accresce il consumo di
reddito da parte degli operai e dei capitalisti, dall'altro lato si identifica con
l'intensificazione del consumo produttivo”. Inoltre il credito “spinge la produzione
capitalistica al di là dei suoi limiti” anche nel senso di porre a disposizione della
produzione “tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società”... E'
precisamente per questi motivi, osserva Marx, che il credito appare come la causa
della sovrapproduzione:”se il credito appare come la leva principale della
sovrapproduzione e dell'iperattività e della sovraspeculazione nel commercio, ciò
accade soltanto perchè il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene
qui forzato fino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perchè una gran parte
del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi
rischiano in misura ben diversa dal proprietario...”. (Il fatto, quindi) che la finanza...
utilizza il denaro di altri, per Marx non (è) una patologia ma una caratteristica di
fondo del sistema creditizio.
Però, proprio per il fatto di accelerare “lo sviluppo delle forze produttive e la
creazione del mercato mondiale” (Marx), il sistema creditizio al tempo stesso
“accelera le crisi, le violente eruzioni di questa contraddizione e quindi gli elementi
di dissoluzione del vecchio modo di produzione” (Marx).
Grazie al credito si può ben spingere la produzione oltre i limiti del consumo (ossia
dell'effettiva domanda pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi si
incarica di dimostrarci che quel limite e invalicabile. Le merci restano invendute,
cominciano i ritardi nei pagamenti, la circolazione si arresta in più punti, e tutto il
meccanismo entra in stallo.
Ecco come Marx descrive la situazione: “Fino a che il processo di riproduzione
fluisce normalmente (...) questo credito si mantiene e si amplia, e questo
ampliamento è fondato sull'ampliamento del processo stesso di riproduzione. Non
appena subentra un ristagno provocato da ritardi dei rientri, da saturazione dei
mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste
sempre, ma in una forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Massa
di capitale-merce, ma invendibile. Massa di capitale-fisso, ma in gran parte inattivo a
causa del ristagno della riproduzione”.
A questo punto il credito si contrae: la restrizione del credito e la richiesta di
pagamenti in contanti contribuiscono a conferire alla crisi la sua apparenza di crisi
creditizia e monetaria.
(Ma) dietro la crisi “creditizia e monetaria” (oggi si direbbe finanziaria) oltre al
fallimento di speculazioni nate nel momento di massima espansione del credito, c'è
insomma una crisi di sovrapproduzione e di realizzazione del capitale.
(Anche oggi) la crisi (è) una classica crisi di sovrapproduzione, (essa) è precedente lo
scoppio della bolla creditizia. La bolla creditizia l'ha prima mascherata e poi,
esplodendo, ha creato l'illusione di esserne la causa...
Nella crisi, puntualmente, si è interrotto il ciclo di trasformazione della merce in
denaro e si è prodotta quella caratteristica “carestia di denaro” che trasforma il denaro
stesso, da semplice mezzo di circolazione del capitale, in “merce assoluta”, in “forma
autonoma del valore” superiore e contrapposta alle singole merci: “in periodi di
depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro
improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di
pagamento e autentica forma di esistenza del valore” (Marx).
Crisi e distruzione di capitale
... La crisi iniziata nel 2007 ha assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una
vera e propria crisi generale. Attraverso di essa si è verificata una enorme distruzione
di capitale su scala mondiale. La distruzione di capitale che si verifica nelle crisi non
è per Marx un accidente, ma una condizione necessaria al fine di ripristinare
condizioni più elevate di redditività del capitale investito.
Questa distruzione è di due tipi.
la distruzione di “capitale reale”. “in quanto il processo di riproduzione si arresta, il
processo lavorativo viene limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto
capitale reale. Il macchinario che non viene usato non è capitale. Il lavoro che non
viene sfruttato equivale a produzione perduta. materia prima che giace inutilizzata
non è capitale. Costruzioni che restano in utilizzate (altrettanto quanto nuovomacchinario costruito) o restano incompiute, merci che marciscono nel magazzino,
tutto ciò è distruzione di capitale” (Marx).
Questo aspetto della crisi “si risolve in una diminuzione reale della produzione, del
lavoro vivo – allo scopo di ristabilire al giusta proporzione tra lavoro necessario e
pluslavoro, su cui in ultima analisi tutto si fonda” (Marx).
Tale proporzione può può essere ristabilita in quanto la crisi comporta licenziamenti
di massa e la creazione di un esercito industriale di riserva: da questo discende una
diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori, e pertanto un aumento della quota
del lavoro non pagato e del saggio del plusvalore.
(ndr) Quindi si ritorna alle condizioni originarie del rapporto di produzione, del
rapporto tra capitale e lavoro salariato. Durante la crisi e per superare la crisi chi
ci perde sono solo i lavoratori e le masse popolari, con aumento dei prezzi (a causa
della distruzione di merci, quelle restanti aumentano di prezzo), indebitamento e
strozzamento da parte di usurai legali (banche) e illegali, ma soprattutto con
licenziamenti e abbassamento dei salari.
Gli analisti, economisti, borghesi, il parlamento e il governo quali comitato di affari
della borghesia, i loro commentatori e scribacchini, e, soprattutto per gli effetti
diretti che hanno nella mancanza di difesa nella crisi dei lavoratori) i sindacalisti dei
sindacati istituzionali, ecc. soprattutto nella crisi diffondono a piene mani tra la
gente, utilizzando tutti i mezzi, la favola che padroni e lavoratori stanno tutti “nella
stessa barca”, che entrambi nella crisi fanno sacrifici” e che insieme dovrebbero
superare la crisi.
A parte che la realtà, le misure adottate dal governo e dalle aziende, gli accordi dei
sindacati di regime smentiscono subito questa favola, e mostrano che i sacrifici sono,
e non possono che essere, a senso unico; ciò che è più osceno è che tentano di
nascondere il fatto che la crisi è provocata dallo stesso capitale, che il capitale per
salvare le sue sorti e tornare a fare i profitti dallo sfruttamento del lavoro salariato
non esita a distruggere mezzi di produzione, merci, anche di prima necessità, fino
alle stesse forze vive; il capitale per la sua vita non può che portare la “morte”.
Da questo ne viene che gli operai, i lavoratori tutti, le masse popolari per la loro
vita, per impedire la distruzione di mezzi, merci, ecc. devono non volere l'uscita dalla
crisi dei capitalisti, ma la loro “morte”, la fine del sistema di produzione
capitalistico; e quindi i proletari devono passare da una condizione oggettiva,
descritta da Marx, di “becchini” della borghesia, a una situazione soggettiva per
esserlo realmente e porre effettivamente la parola fine alle crisi.
Un secondo aspetto della distruzione di capitale è rappresentato dalla “caduta
rovinosa dei prezzi delle merci”. In questo caso “non viene distrutto nessun valore
d'uso. Ciò che perde l'uno, guadagna l'altro. Alle masse di valore operanti come
capitale viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi
capitalisti fanno bancarotta” (Marx), in quanto non solo non riescono a valorizzare il
capitale anticipato per produrre quelle merci, ma le devono vendere al di sotto del
loro valore. Allo stesso modo, nella crisi “una gran parte del capitale nominale della
società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per
tutte, benchè proprio quella distruzione poiché essa non tocca il valore d'uso, possa
favorire molto la nuova riproduzione” (Marx).
Il decorso della crisi: l'intervento pubblico e i suoi limiti.
(Nella crisi, gli) interventi di salvataggio delle banche con denaro pubblico sono stati
definiti “socialismo per i ricchi”. Marx non ne aveva parlatop in modo molto diverso.
Ecco quanto scriveva a proposito della crisi di Amburgo del 1857: “Per tenere su i
prezzi... lo Stato dovrebbe pagare i prezzi in vigore prima dello scoppio del panico
commerciale e scontare delle cambiali che non sono più altro che il controvalore delle
bancarotte altrui. In altre parole, il patrimonio dell'intera società, che il governo
rappresenta, dovrebbe ripianare le perdite subite dai capitalisti privati. Questo genere
di comunismo, in cui la reciprocità è assolutamente unilaterale, esercita una certa
attrattiva sui capitalisti europei” (Marx).
(E giungono Marx ed Engels) “E' proprio bello che i capitalisti, che gridano tanto
contro il “diritto al lavoro”, ora pretendano dappertutto “pubblico appoggio” dai
governi... facciano insomma valere il “diritto al profitto” a spese della comunità”.
(ndr) vale a dire la classica: socializzazione delle perdite e privatizzazione dei
guadagni, sempre usata dai capitalisti anche oggi.
(Ma) in generale, sia Marx che Engels ritenevano che la crisi non potesse essere
risolta da interventi di politica monetaria né da leggi ad hoc o interventi pubblici a
garanzia e copertura del debito privato. Anzi in una lettera ad Engels riferita agli
sviluppi della crisi che allora imperversava in Francia, Marx accennò al fatto che
questi ultimi interventi, lungi dal risolvere la crisi, potevano portare alla bancarotta
anche lo Stato: “quando scoppia la vera e propria crisi francese, il mercato finanziario
e la garanzia di questo mercato, cioè lo Stato, se ne vanno al diavolo”...
La gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico in atto, se non è
riuscita né a ridurre l'entità complessiva del debito né a rianimare l'economia, può
porre le premesse di un ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito
pubblico... A questo punto il risultato che si avrebbe sarebbe una pesantissima crisi
fiscale, un'ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell'economia e il campo libero
lasciato alle grandi aziende multinazionali private.
(ndr) l'intervento dello Stato in soccorso dell'economia capitalista, del profitto
attraverso soprattutto misure che impoveriscono i lavoratori e le masse popolari
confermano il ruolo dello Stato è unicamente a difesa degli interessi della classe
dominante; questa difesa comporta un incremento direttamente proporzionale della
funzione repressiva dello Stato verso i proletari per prevenire o soffocare ribellioni e
lotte; oggi le misure “anticrisi” si accompagnano alla marcia verso il moderno
fascismo, allo Stato di polizia ad una risposta sempre più violenta alle giuste
rivendicazioni dei proletari e delle masse popolari colpite.
Conclusioni
Per Marx: “nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente
inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di
produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta del capitale, non in seguito a
circostanze esterne ad esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la
forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far
posto ad un livello superiore di produzione sociale”. (Marx)...
... la crisi attuale non è un incidente di percorso... Questa crisi fa parte integrante del
funzionamento normale del modo di produzione capitalistico. Come ogni crisi, essa
non è in sé un problema per il capitalismo, ma il modo attraverso cui, periodicamente,
il capitalismo risolve i suoi problemi. Non nasce da imperfezioni del mercato, ma è
uno dei più potenti e perfetti prodotti del mercato stesso.
... la sola vera soluzione della crisi può venire dall'intendere che il capitalismo è il
problema e dall'operare di conseguenza: ossia per il superamento di questa “ultima
configurazione servile assunta dall'attività umana” (Marx), con l'obiettivo di far sì che
i produttori assoggettino la produzione – che oggi li sovrasta come una “legge cieca”
al “loro controllo comune come intelletto associato” (Marx).
(ndr) contro i risolutori, comunque, della crisi (dai sindacati, dai partiti di “sinistra”
riformisti al (n)Pci - Carc, affermiamo con forza questa verità e soprattutto
applichiamola!