giovedì 12 marzo 2015

Ancora poco e viene giù tutto

Ancora poco e viene giù tutto












 Gianni Fraschetti 

La crisi sta smascherando, giorno dopo giorno, un modello politico e sociale ma prima ancora culturale. Quello imposto dai vincitori della Seconda guerra mondiale, talmente artefatto e inadeguato da andare ovunque in frantumi di fronte al primo vento di burrasca.

Questa specie di democrazia liofilizzata che ci imposero allora con le armi, progettata e confezionata sotto vuoto, modello esportazione, nei piani alti di quegli organismi apolidi con i quali manipolano il mondo, sta gemendo e scricchiolando ovunque e quel poco che resta degli Stati nazione risulta totalmente inadeguato ed impotente di fronte alla complessità del momento storico che stiamo vivendo.

Il tessuto dei corpi sociali va perdendo rapidamente coesione e capacità di tenuta mentre il ceto politico e i cittadini sono oramai definitivamente separati e privi di collegamento. Con i primi chiusi, ma forse sarebbe meglio dire barricati nei loro palazzi, che tentano di escogitare qualcosa che almeno rallenti il crollo definitivo che percepiscono imminente, e i secondi che ribollono nella e della loro rabbia e disperazione come tonni impazziti nella camera della morte e cercano di dare a tale furore almeno una qualche comprensibile forma organica che permetta almeno l'illusione di contare qualcosa.

Oggi comprendiamo appieno, anche se non lo vogliamo ammettere, che siamo un paese sconfitto, privo di autonoma volontà, di capacità decisionale e quindi di sovranità. Scontiamo ancora un trattato di pace che ci ha resi schiavi e ci ha agganciato d'imperio ad altri trattati, la NATO e quelli europei per dirne due, che ci hanno poi privato di tutto.

Solo per parlare di economia e di denaro, a partire dal 1992, spariscono ogni anno dalla circolazione circa 30 miliardi di euro, necessari a sostenere gli impegni di Maastricht. Sono andati alle banche, straniere e italiane. Una voragine. Negli ultimi vent’anni, gli italiani hanno versato 620 miliardi di tasse superiori all’ammontare della spesa dello Stato.

Ovvero 620 miliardi di “avanzo primario”, il saldo attivo benedetto da tutti gli economisti mainstream e dai loro politici di riferimento, ossia i gestori della crisi e i becchini della catastrofe nazionale che si va spalancando giorno per giorno, davanti ai nostri occhi: paura, disoccupazione, precarietà, aziende che chiudono, licenziamenti, servizi vitali tagliati.

Questi denari sono scomparsi dai cicli economici nazionali. Volatilizzati. fagocitati dal sistema bancario e quale era il fine ultimo di tanto sadismo? Entrare nei parametri di Maastricht e stare dentro l’Eurozona. Ma, nonostante l’immane sforzo e il sangue che ci hanno cavato a forza, il debito pubblico non ha fatto che crescere, passando da 958 milioni a 2 miliardi di euro.

È evidente che non funziona così e che mentono sapendo di mentire, è tempo quindi di iniziare a disintossicarci dal lavaggio del cervello cui siamo stati sottoposti, da quanto ci è stato inculcato durante questi settanta anni e di disabituarci a parole d'ordine, schemi e rituali tristi e obsoleti cui solo politici e giornalisti restano disperatamente aggrappati.

Insieme a quel mondo di parassiti che ruota intorno a loro, nell'illusione di trarne un briciolo di sicurezza per poter prendere sonno la sera e che il presente che vivono da svegli sia solo un incubo dal quale, prima o poi, si sveglieranno. Come poveri struzzi che cacciano la testa sotto la sabbia, i custodi del vecchio ordine non vogliono vedere le geometrie perfette della colossale tempesta che è in preparazione e il nesso tra le varie crisi del nostro tempo: dell’economia, del clima, delle democrazie.

Crisi che sono intimamente collegate e stanno per riunirsi tra loro e con i fenomeni locali (qui da noi crisi istituzionale e costituzionale) per dare luogo al più devastante tsunami che la storia del pianeta ricordi. Quando scrissi "Caput Mundi" pensavo di anticipare la realtà ma mai avrei supposto che i fatti la avrebbero superata di gran lunga.

La democrazia rappresentativa è un palazzo dalle fondamenta talmente ammalorate che al primo soffio di vento inevitabilmente collasserà, ripiegandosi su se stesso. Tra governanti e governati oramai c’è un deserto impraticabile mentre la Storia, spietata e inesorabile, si ripete beffarda e si ripresenta a consegnarci il conto.

Un conto che purtroppo è lungo e salato. I vincitori di allora fecero male i loro calcoli nell'edificare il mostro in disfacimento che abbiamo sotto gli occhi e non ci sarà di grande aiuto non guardare e volgere gli occhi altrove, in cerca di improbabili soluzioni, turandoci anche le orecchie per non udire i sinistri scricchiolii che precedono il crollo.

L'imbuto nel quale siamo caduti, o meglio, nel quale siamo stati precipitati, porta direttamente al caos totale e a una sola soluzione ma ci vorrà altro tempo e tanta sofferenza per arrivarci. Adesso siamo ancora nella fase della beata illusione che qualcosa ci salverà. Quella della "luce in fondo al tunnel", di "supermario" e di Pittibimbo. Per alcuni, troppi, la fase della democrazia diretta, dell'uno conta uno.

Passerà anche questo momento e la nostra condizione peggiorerà ancora, mentre la vite della crisi penetrerà a fondo nelle nostre carni straziandole. Quando sarà arrivata alla fine e inizierà a intaccare l'osso il dolore diverrà allora insopportabile e pregheremo Dio in tutti i modi e in ginocchio, perchè qualcuno ci liberi da questo tormento inaudito, perchè la partitocrazia trovi alfine la sua drammatica fine, l'unica che si merita e perchè questo triste periodo abbia termine.

E con esso tutto il suo carrozzone logistico di giornalismo pilotato, di nani, ruffiani, ladri e puttane. E tanto per essere chiari, il carrozzone è patrimonio comune di tutto l'arco parlamentare, come la resistenza. Simul stabunt simul cadent, senza sconti o abbuoni. A quel punto, quando il palazzo verrà giù, perchè verrà giù, farà chi vorrà fare, e vincerà chi vorrà vincere.

Dovremo demolire ciò che resterà dal crollo, pulire dalle macerie e ricominciare. Sperimentando, provando e sfatando i tabù, primo fra tutti quello che la forza del numero porta con sè la ragione per il solo fatto di essere maggioritario. Non è così, come abbiamo sperimentato in questi 70 anni e perlomeno finché permarrà la regola matematica della prevalenza del cretino.

Viviamo immersi in un contesto sociale dove sono stati banditi i valori caratteristici dell’essere umano: la lealtà, il valore, la dignità, l’orgoglio, il coraggio e anche l'intelligenza. Tutte qualità superflue, anzi dannose, per il mondo globalizzato delle formiche, dove il livellamento verso il basso è continuo e spietato, nella ricerca spasmodico di un tipo umano ( se ancora si può definire così) passivo, spersonalizzato, gregario e privo di qualsiasi attributo tipico della nostra specie.

Ad oggi uno vale uno vuol dire questo e quindi non è praticabile. Lo sarà alla fine, quando avremo cambiato tutto e sarà una società diversa, modificata radicalmente e profondamente nei presupposti e nel fine ultimo. Una Comunità di "pares". Una società di uomini ove tutti. indistintamente, godranno degli stessi diritti e avranno gli stessi doveri.

Allora si potrà dire uno vale uno, ma non oggi. Non con la prevalenza del cretino ancora a piede libero e perennemente in agguato. Lo scempio rappresentato dalla democrazia rappresentativa ha esautorato l'individuo di ogni libertà, prima fra tutte quella di potere scegliere e di decidere cosa fare della propria vita.

In sostanza si sono presi la nostra essenza umana, la nostra anima verrebbe da dire, in cambio di una illusione e di quell'atto ridicolo e demenziale che è il voto, almeno come è congegnato oggi. Una delega, peraltro in bianco, senza alcun vincolo per il delegato. Una truffa. L’eterna allegoria del gatto, della volpe e di Pinocchio.

Un po' di tempo fa Barbara Spinelli, su Repubblica, dopo una serie di notevoli acrobazie verbali, giunge alla conclusione che si deve tornare all'Agora' di Atene e all'Azione Popolare di Roma antica. Una ammissione sconcertante, da quella persona e da quel giornale. Evidentemente nell’organo ufficiale del buon governo illuminato avvertono il terreno tremare sotto i loro piedi. Adesso è solo un senso di insicurezza indefinito, una paura sottile e senza nome ma credo proprio che nei prossimi mesi diverrà terrore puro. Perché succederanno cose da pazzi.

sabato 25 gennaio 2014

LE FAMIGLIE IN GRECIA STANNO SEMPRE PEGGIO: CIBO, VESTIARIO, CASA ANNIENTATI DALLA TROIKA.

LE FAMIGLIE IN GRECIA STANNO SEMPRE PEGGIO: CIBO, VESTIARIO, CASA ANNIENTATI DALLA TROIKA.


ATENE - La situazione economica delle famiglie greche continua a peggiorare a vista d'occhio secondo una ricerca condotta dall'Istituto per le Piccole Imprese della Confederazione Generale Professionisti, Commercianti e Artigiani ellenici (Ime-Gsevee). Si tratta della ricerca annuale della centrale sindacale su un campione di 1.207 nuclei familiari rappresentativi a livello nazionale condotta in collaborazione con la societa' Marc lo scorso dicembre allo scopo di registrare le ripercussioni della crisi economica sulle famiglie greche.

Dalla ricerca e' emerso che una famiglia su tre teme di perdere la propria casa a causa dei debiti accumulati, mentre gran parte della popolazione dichiara di non essere in grado di soddisfare i propri impegni finanziari. Nello stesso tempo, 1,4 milioni di famiglie hanno almeno un disoccupato in casa e di loro solo un 9,8% riceve il sussidio di disoccupazione, mentre oltre un milione di greci non hanno alcuna garanzia per il loro lavoro.

Il 44,3% dei nuclei familiari risulta indebitato con le banche mentre un greco su 10 si e' visto sinora costretto a vendere parte della sua proprieta' per riuscire a sopravvivere alla crisi. Inoltre si teme che le recenti misure di austerita' che riguardano, tra l'altro, la tassa sugli immobili e il sequestro dei depositi bancari in caso di mancato pagamento delle tasse, creeranno ulteriori difficolta' per le famiglie greche.

Il 94,6% delle famiglie, secondo la ricerca, ha subito una riduzione media del 39,47% del proprio reddito dal 2010 sino ad oggi, con la Regione dell'Attica in prima posizione, mentre il principale reddito di gran parte delle famiglie (48,6%) proviene dalle pensioni.

La situazione si presenta ancora piu' drammatica per quanto riguarda il settore dei beni di consumo. Il 63,7% delle famiglie dichiara di aver ridotto le spese per l'alimentazione, il 90,3% ha tagliato le spese per il vestiario e il 90% ha limitato quelle per i ristoranti, i locali ed il cinema. Il 75% delle famiglie ha ridotto anche le spese per il riscaldamento e il 36,5% ammette che ormai acquista solo prodotti di qualita' inferiore. 
Fonte notizia: Ansa.

lunedì 13 gennaio 2014

Altro di cui preoccuparsi in Europa: La disastrosa conseguenza della moria di api per l’Europa

Altro di cui preoccuparsi in Europa: La disastrosa conseguenza della moria di api per l’Europa



Quartz

Todd Woody

Si è parlato a lungo della grande moria di apiche ha colpito  Stati Uniti ed Europa, una carenza che si temeva potesse minacciare varie colture che dipendono da loro come impollinatori. Ora, alcune ricerche hanno messo in numeri quanto dannoso sia il deficit di questi insetti per il territorio europeo. E i risultati sono allarmanti, a dir poco.



Nello studio su 41 Paesi, i ricercatori hanno scoperto che tra il 2005 e il 2010  la domanda per i cosiddetti “servizi impollinatori” è cresciuta quasi cinque volte più velocemente rispetto alla concreta fornitura consentita attualmente dalle api. Nel Regno Unito i ricercatori stimano che ora ci siano sufficienti alveari solo per soddisfare un quarto della domanda. In generale, in Europa, possono soddisfare solo il 25% al 50%. Nel complesso, quasi la metà dei Paesi studiati accusano un deficit di api.


Secondo il ricercatore Simon Potts dell’Università di Reading nel Regno Unito, “siamo di fronte ad una catastrofe che ci attende nei prossimi anni se non agiamo ora” (The Guardian).

Una catastrofe per ora evitata grazie all’attività degli “impollinatori selvatici” – bombi, sirfidi ed altre specie. Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che gli scienziati hanno pochi dati concreti sul numero di api selvatiche e suòle loro abitudini di impollinatori. Peggio ancora, le api selvatiche potrebbero essere altrettanto a rischio.

Secondo i ricercatori, “recenti studi hanno dimostrato cali diffusi nella diversità degli impollinatori selvatici in gran parte dell’Europa a causa dell’intensificazione dell’agricoltura, il degrado degli habitat, la diffusione di malattie e parassiti ed il cambiamento climatico”.

Anche se gli scienziati ritengono che il collasso globale delle popolazioni di api negli ultimi 7 anni sia dovuto ad esposizione ai pesticidi e malattie varie, questa non è l’unica causa. Anche se le api stanno scomparendo, la quantità di terra convertite ad uso agricolo è aumentato vertiginosamente. Nel complesso, la quantità di terreni agricoli dedicati alle colture che dipendono da api è aumentato del 300% dal 1961. Questo è in parte il risultato del boom dell’utilizzo di biocarburanti a partire dal passato decennio.

Gli agricoltori hanno utilizzato la pianta di mais, la colza ed altre colture che fungono da base per l’etanolo ed il biodiesel per sostituire i combustibili fossili. Ma visto che gli agricoltori ripuliscono la terra per coltivare queste colture, così facendo eliminano molti dei fiori selvatici ed altre piante il cui polline serve alle api per alimentare gli alveari. Gli studi hanno dimostrato che indeboliti dalla mancanza di cibo, le api diventano maggiormente sensibili a malattie ed all’avvelenamento da pesticida. Il che contribuisce al problema noto come Colony Collapse Disorder, dove interi alveari improvvisamente deperiscono.

Secondo i ricercatori il futuro delle api e della loro impollinazione dipende direttamente dalle colture alimentari e, in parte, da quanta terra continuerà ad essere riservata per la produzione di biocarburanti.

venerdì 18 ottobre 2013

L’Olocausto americano


L’Olocausto americano

Coordinadora Simón Bolívar 
Tradotto da  Francesco Giannatiempo



Per un presente di lotta radicato in un movimento per la difesa della causa amerindia (indigenismo) degno e combattivo contro l’ingiustizia, in fratellanza con gli afro-discendenti e con i meticci. Un’identità nella lotta per una società senza sfruttatori; un’identità senza esclusioni divisioniste né misticismi artificiali paralizzanti; senza manipolazioni dello pseudo-indigenismo made in USAID-UE - tanto compiacente alla genuflessione e al divisionismo neo-razzista dell’ambito popolare quanto funzionale al Grande Capitale. Alla vigilia del 12 Ottobre, abbiamo cominciato a ripensare la nostra identità con un fulcro unitario nella lotta per la giustizia sociale per tutte e tutti.

Da piccoli, per molte generazioni, ci hanno insegnato a celebrare il 12 Ottobre come “Il Giorno della Razza”… Questa distorsione della storia è solamente un dato in più di tante altre menzogne che ci hanno fatto ripetere fino a ritenerle vere. All’inizio, questa celebrazione venne imposta a ferro e fuoco. Fu imposta dal genocida conquistatore così come la sua lingua, le sue religioni, le sue credenze, il suo sistema politico ed economico, la sua cultura… attraverso lo sterminio sistematico di 70 milioni di nostri avi che vennero assassinati in molti modi, con il proposito di strappare loro la propria terra, spogliarli dei propri diritti ancestrali e, molte volte, addirittura per il solo piacere di vederli soffrire – come si può apprezzare in uno dei numerosi racconti di Fray Bartolomé de las Casas (Siviglia, 24 agosto del 1474 o 1484 – Madrid, 17 luglio del 1566) che fu un “encomendero” spagnolo [colonizzatore a cui veniva concessa un’ “encomienda”, ovvero l’assegnazione di un gruppo di indios a un colono, NdT] e poi frate domenicano, cronista, filosofo, teologo, giurista, «Procuratore o protettore universale di tutti gli indios delle Indie», ed è considerato uno dei fondatori del diritto internazionale moderno, un grande protettore degli indios e precursore dei diritti umani:
Una volta ho visto che, mentre quattro o cinque capi e persone importanti bruciavano sulle graticole (e credo anche che c’erano due o tre coppie di graticole dove altri stavano bruciando), siccome si lamentavano con grandi grida e facevano pena al capitano o gli impedivano di dormire, lui ordinò che venissero soffocati; la guardia, che era peggio del boia che li bruciava (e so come si chiamava; conobbi persino i suoi parenti a Siviglia), non volle soffocarli: con le proprie mani, prima gli mise in bocca dei bastoni di legno affinchè non facessero rumore, e poi attizzò il fuoco fino a che potessero morire arsi lentamente come lui desiderava”.
La nostra vera storia è riempita di questi racconti crudeli, di violazioni, torture, mutilazioni e umiliazioni atroci che, con l’oblio della distanza temporale, oggi ci sembrano incredibili, sebbene non lontani dall’attuale realtà mondiale, dove l’impero – adesso statunitense – applica le stesse tattiche di conquista, con strumenti moderni (droni, missili, bombe, armi chimiche). Molti di questi eventi sanguinari non vennero mai registrati e molti altri vennerogiustificati con le scuse più ironiche che si possano immaginare, includendo persino Dio. E attualmente si invade con la scusa della Democrazia o si uccide contro il “Terrorismo”.

Tale processo di conquista, con l’aiuto della scienza, della tecnica e della tecnologia attuale, si è raffinato a livelli sorprendenti, in cui il dominato neanche si rende conto della propria condizione, ma addirittura arriva fino alla difesa di chi lo sottomette mentalmente; viene preparato(“educato”) a segnalare, condannare, fino ad attaccare chi pretende di liberarlo o a lottare contro l’imperialismo e i suoi nuovi metodi – molte volte fatti “Legge”.
Malgrado tanti secoli di dominazione - prima fisica e ora mentale – nel Popolo Povero è sempre sopravvissuto il sangue ribelle, combattivo e libertario dei nostri antenati, amanti della libertà e della natura, indomabili di fronte all’ingiustizia e, soprattutto, disposti a vendicare i propri morti. Questa fiamma è stata trasmessa di generazione in generazione, attraverso il racconto orale e scritto, e soprattutto con l’esempio della lotta.

In Venezuela dobbiamo fare sforzi per riscattarci dall’oblio, dalla censura imperialista e borghese, dall’alienazione come maniera di schiavitù mentale, e diffondere alle nuove generazioni la nostra vera storia di resistenza.

Devono divenire familiari e tornare ad affiorare nella nostra identità culturale i nomi dei nostri guerrieri indigeni, i nostri Caciques, tali come furono:  Aramaipuro, Arichuna, Baruta, Catia, Caricuao, Cayaurima, Chacao, Chacumbele, Chicuramay, Cuaicurián, Conopaima, Guaicaipuro, Guaicamacuto, Guaratarí, Queipa, Mamacurri, Guarauguta, Manaure, Mara, Maracay, Meregote, Murachí, Naiquatá, Paisana, Paramacay, Paramaconi, Pariata, Maiquetía, Prepocunate, Sorocaima , Tamanaco, Terepaima, Tiuna, Yaracuy, Yare, Yavire, Paramaiboa, Pariaguán y Yoraco.

Nell’affanno di preservare la nostra memoria collettiva e storica, di mantenere accesa la rivolta latinoamericana dinnanzi all’invasore e, soprattutto, di costruire una società con una giustizia vera e con le libertà paritarie per tutti, la Coordinadora Simón Bolívar, propone di celebrare l’ 11 Ottobre come l’ “Ultimo Giorno d’America”; commemorare il 12 ottobre come l’ “Inizio dell’ Olocausto Americano” (o dell’ inizio dell’ “Invasione Europea dell’ America”); e il 13 Ottobre come l’ “Inizio della Resistenza Anti-imperialista in America”.

In Onore di Sabino Romero e a tanti altri fratelli che sono morti per mano del tuttora conquistatore,
Dal Venezuela, Terra di Liberatori, a 521 anni dall’inizio della Resistenza anti-imperialista in America, e a 203 anni dall’inizio della Nostra Indipendenza,
Coordinadora “Simón Bolívar”
Libertaria, Rivoluzionaria, Solidale, Indigenista, Popolare y Socialista.

Nè guerra tra i popoli, nè pace tra le classi”




Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://coordinadorasimonbolivar.wordpress.com/2013/10/11/el-holocausto-americano-escrito-por-la-coordinadora-simon-bolivar/
Data dell'articolo originale: 11/10/2013
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=10737 

sabato 5 ottobre 2013

NUOVE REGOLE USDA SEMPRE MENO SICURE, SI SORVOLA SU FECI NASCOSTE , PUS , BATTERI E VARECHINA SUL POLLAME CONVENZIONALE... SI SALVI CHI PUO'

NUOVE REGOLE USDA SEMPRE MENO SICURE, SI SORVOLA SU FECI NASCOSTE , PUS , BATTERI E VARECHINA SUL POLLAME CONVENZIONALE... 

AIUTO, SI SALVI CHI PUO'
naturalnews.com
Con i nuovi trattati per gli scambi commerciali USA-Europa, le loro norme diventeranno le nostre norme?

Il Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA),  sta cercando di far passare un nuovo regolamento più moderno per la produzione del pollame che permetterebbe di eliminare un bel numero di ispettori dell’USDA e velocizzerebbe i processi di produzione dell’industria alimentare. Eliminerebbe anche le attuali protezioni, per quanto misere già siano, permettendo che nella carne di pollo e di tacchino siano tollerate percentuali maggiori (e occulte) di feci, pus, batteri ed inquinanti chimici.

Benché negli Stati Uniti i tassi di salmonella riscontrati nelle carni e nel pollame sono calati sensibilmente anno dopo anno, il numero annuo di persone infettate è rimasto praticamente stazionario. La principale ragione di questa anomalia statistica sembra consistere nel fatto che i metodi autorizzati attualmente dalla USDA per le carni ed il pollame siano totalmente inadeguati e datati e quindi inadatti a rilevare componenti contaminanti provenienti da allevamenti ed industria.

Ma un nuovo gruppo di direttive proposte dalla USDA renderà la situazione ancora peggiore, permettendo alle aziende non solo di effettuare le analisi in proprio ma anche di usare componenti chimici ancora più aggressivi, per poter trattare le carni avariate prima di rifilarle a noi consumatori.

Queste sì che sono buone notizie per l’industria del pollame: grazie ai compari nell’USDA taglierà i costi di 250 milioni di dollari l’anno. Ovviamente sono cattive notizie per i consumatori che ne pagheranno tutte le tossiche conseguenze.

Se avete visto anche una sola volta uno degli sconvolgenti filmati che mostrano come sono trattati negli allevamenti i polli, i tacchini e gli altri animali, allora conoscete già il tipo di maltrattamenti ed abusi ai quali sono sottoposti d’abitudine questi poveri animali. A causa delle terrificanti condizioni di vita, gli animali negli allevamenti sono zeppi di pericolosi patogeni, il che spiega ovviamente perché le loro carni devono assolutamente subire trattamenti chimici prima di essere confezionati. Il meno che si possa dire è che è un procedimento disgustoso.

Stando ad indagini documentate, dopo la macellazione,  il pollame viene appeso su lunghe linee di trasporto dove viene irrorato, immerso ed iniettato di ogni tipo di soluzione chimica – incluso il clorato di calce – prima di essere esposto sui banchi del supermercato. Queste soluzioni chimiche sono ovviamente messe a punto con cura con lo scopo di uccidere ogni tipo di batteri e far diventare la carne sicura per il consumo.

L’USDA vuole risolvere il dilemma dell’industria del pollame ricorrendo a maggiori additivi e minor controlli

Ma, come tutte le altre soluzioni basate sulla chimica e gradite all’industria alimentare, questo procedimento serve ad uccidere quegli agenti patogeni già conosciuti. Una valanga di nuove ricerche scientifiche inviate ultimamente alla USDA rivela come i procedimenti abituali impiegati dall’industria alimentare non funzionano con un’intera nuova generazione di super-batteri che resiste a tali prodotti chimici. La soluzione proposta dalla USDA sarebbe al momento quella di coprire il problema con l’impiego di ancora più sostanze chimiche.

Come spiega ChickenJustice.org: “Se diventeranno operativi i nuovi regolamenti, tutto il pollame sarà considerato a priori contaminato da feci, pus, scabbia e bile e sarà lavato con una soluzione di cloro. I consumatori mangeranno pollame contaminato e contenente ancora più scorie. Data l’accelerazione dei tempi di produzione, aumenterà anche il rischio di infortuni dei lavoratori e la probabilità di problemi dermatologici e respiratori a causa dei vapori da lavaggio con cloro. L’OSHA vorrebbe avere a disposizione 3 anni per condurre uno studio sull’impatto che le nuove linee di lavorazione – più veloci – avranno sui lavoratori, ma la USDA vuole rendere immediatamente operativo il nuovo regolamento”.

Per agire concretamente contro questo osceno programma della USDA destinato agli allevamenti del pollame, si può contattare la Casa Bianca visitando la pagina Take Action Now! sul sito http://chickenjustice.org.

giovedì 12 settembre 2013

Diciamola Tutta: Mario Monti ha fatto un Disastro (e la Germania ringrazia). Ecco perchè

Diciamola Tutta: Mario Monti ha fatto un Disastro (e la Germania ringrazia). Ecco perchè


Lo scopo di questo articolo è analizzare e dimostrare quanto indicato nel titolo e per fare questo verranno approfonditi le cause e gli effetti delle misure attuate dal Governo del Prof. Mario Monti. Abbiate un po’ di pazienza, il documento è volutamente lungo – ma non complesso – a causa del necessario requisito di completezza, l’auspicio è di rendere convincenti le tesi proposte con dati fattuali, anche in considerazione dei recenti interventi a supporto dell’UE e delle sue politiche, non ultimo l’intervento di Van Rompuy ieri a Cernobbio quando indicava che l’Europa non è il problema ma la soluzione (excusatio non petita, accusatio manifesta?).

Ricapitoliamo. Il Governo Berlusconi caduto a fine 2011 effettivamente si era perso in un gioco di veti incrociati, una situazione economica in stallo da almeno 10 anni e con un capo perso tra varie e svariate bellezze effimere. Questo almeno quanto sostengono gli organi di stampa in generale e sull’ultima constatazione penso che nemmeno il mio gatto avrebbe nulla da dire. Precedentemente, le parentesi dei Governi Prodi e D’Alema non avevamo dato nessuna vera svolta economica al Paese, come invece potrebbe apparire da certe affermazioni ancora a mezzo stampa, argomentazioni emerse nell’ultimo anno. In particolare, e questo lo aggiungo io – a rischio di auto-provocata smentita, vedremo più sotto – poco o nessun controllo dell’inflazione post introduzione dell’euro è stato adottato da nessun Governo italiano che si è succeduto, ritenendo il sottoscritto che il delta competitività dell’Italia vs. centro Europa sia da ascrivere in maggior parte a tale differenziale inflattivo.
La saggezze convenzionali ci dicono dunque che l’Italia negli ultimi venti anni non ha saputo crescere, spiace sentire che una certa classe politica cerchi di dare tutte le colpe all’ultimo arrivato, Silvio Berlusconi. E penso che egli stesso sia il primo a rendersi conto che di colpe ne ha tante, a partire dall’aver avuto l’opportunità di cambiare veramente il Paese con una maggioranza spropositata e di non averlo fatto, ma sicuramente non tutte.
Ma osserviamo meglio quanto accaduto con i dati, verificando le affermazioni sopra citate con un po’ più di dettaglio. Italia in stallo da 10 anni: vero? E se si, possiamo dare una data precisa a partire dalla quale l’Italia si può considerare in stallo? Vediamo il grafico seguente, andamento del GDP mensile:
ITA GER GDP Growth
Possiamo osservare che dal 1992 in avanti (prima la Germania non aveva dati aggregati est-ovest) la crescita italiana sembra addirittura leggermente superiore a quella tedesca, fino al 2005. Poi, l’andamento sembra assimilabile al partner europeo; successivamente il gap si è aperto, dal 2011 in avanti. Curioso che la Germania abbia iniziato ad alzare i toni in Europa proprio a partire dal 2011, sembra quasi non aspettasse altro….
In ogni caso possiamo dire che in Italia ci sia stata crescita negli ultimi 10 o 20 anni fino al 2009, magari bassina ma diciamo onorevole se confrontata a quella tedesca; poi le cose hanno iniziato ad andare per il verso sbagliato.
Dunque, contestualizzando, mi viene da commentare che l’affermazione ”Italia in stallo da 20 anni”, beh, forse non è così vera se la si confronta alla Germania, avente un andamento della crescita molto simile fino al 2009 o al 2011, a scelta del lettore. Ora, passiamo al differenziale di inflazione:
ITA GER Inflation rate
Germany and ITA Inflation Rate 2001 2012 - Actual Value - Historical Data - Forecast
Possiamo evincere che dal 1.1.1999, data di fissazione parità della lira sull’euro, l’inflazione italiana sia aumentata sostanzialmente più della Germania (occhio alle scale, sono disassate! bisogna guardare l’inflazione assoluta sui rispettivi assi), poi l’andamento – sebbene in valore assoluto resti superiore in Italia – sembra avere un andamento simile fino al 2007, poi quella tedesca parte prima di quella italiana ed ora è maggiore, vedendo in generale una certa similitudine nei comportamenti fino al 2011/2012 quando l’Italia va in pre-depressione. E’ chiaro che c’è stato un accumulo inflattivo dell’Italia, ma sinceramente il dato non sembra sufficiente per giustificare un tal crollo della competitività italica, almeno nei termini in cui viene percepita oggi. Anche perché, viaggiando molto per lavoro in Germania, posso confermarvi che i costi della vita apparenti (affitti, hotel, cibo, svago) sembrano al mio portafoglio molto più bassi di quelli italiani, almeno comparando le grandi città, sentore per altro confermato da referenziate statistichei, per cui la smentita di cui all’introduzione meriterebbe una superiore analisi … . Ma questa è un’altra storia, che magari approfondiremo in un intervento successivo.
Andiamo a vedere ora un parametro importante per la produttività manifatturiera e per i costi associati (possiamo definirla anche inflazione legata dei costi della produzione), ossia l’indice dei prezzi alla produzione:
ITA GER Producer Price rate
Anche qui un andamento simile ma più accentuato: attenzione alle scale diverse sui due assi, la Germania passa da ca. 87 a 118 (+31, ossia base punto di partenza ca. +35%), mentre l’Italia passa da 75 a 120 – lasciando stare il tratteggiato – (+45 ossia +60%), quindi è confermato l’accumulo inflattivo anche nell’andamento dei prezzi alla produzione.
Se analizziamo l’indice dell’inflazione CPI (Consumer Price Index, un’altra misura dell’inflazione, aggregata in un indice in questo caso) nell’intervallo tra il 1999 e il 2012, vediamo qualcosa di interessante:
Germany Consumer Price Index (CPI) vs ITA 2001-12 - Actual Data - Forecasts
E qui otteniamo una visione che completa il quadro, sempre attenzione alle scale. La Germania passa da ca. 91 a ca. 114, (+23 ossia ca. +25%) mentre l’Italia passa da ca. 79 a ca. 107 (+28, ossia +35%). Dunque sembra confermata una maggiore crescita inflattiva italiana, ma non sembra così “dirompente”, sebbene certamente rilevante.
Chi scrive ha per altro più di qualche dubbio su come sia misurata l’inflazione soprattutto in Italia, ricordiamo le mille modifiche del paniere succedutesi negli ultimi 10 anni, oltre alla constatazione diciamo pratica di un maggior costo della vita italiano, vedasi nota i.
Ma allora, a complemento di quanto sopra, da dove arriva questa ipotetica mancanza di competitività dell’Italia vs Germania? Andiamo quindi a vedere l’indicatore principe, la tanto blasonata produttività (che è il GDP prodotto per ora lavorata o per persona impiegata, per la definizione di come si calcola detto indice ci si può riferire alle indicazioni dell’OECD (nota ii) , sebbene in questa sede si voglia solo analizzare qualitativamente l’andamento della produttività in relazione ai drivers sottostanti e non fare una dissertazione analitica). In effetti, come indicato dall’Unione Europea, la competitività dei sistemi economici dipende dalla produttività, con una relazione approssimabile al rapporto causa-effettoii. Vediamo che ci dice tale grafico:
ITA GER CPI Productivity index 1999
E qui vediamo ben altre differenze. Ossia, se sommiamo quanto l’Italia ha perso di produttività dal 1999 (ca +28 punti) e vediamo dove eravamo al 2008 (eravamo pari, delta netto -28 punti persi dall’Italia) e dove eravamo a fine 2012 dopo le varie cure dei Governi tecnici (-12 punti, delta netto 41 punti), beh qui la realtà cambia. Prima di tutto notiamo che la crisi del 2008 ha causato un problema che l’Italia ha sottostimato. In ogni caso, vista così la situazione sembra evidente un’enorme perdita di competitività del sistema economico italiano, come riportato dai principali organi di stampa. Secondariamente resta secondo me la necessità di analizzare meglio il dato della produttività in quanto il dato appare decisamente anomalo e soprattutto abnorme.
Vediamo un po’. Ipotizziamo la produttività in termini di GDP per labour unit impiegato, ipotesi accettabile. Affinchè la produttività sia aumentata così tanto in Germania dal 1999 i casi sono due: o al di là del Gottardo è sceso il numero di ore lavorate a parità di GDP o è salito il GDP a parità di unit labor. Dunque, introduciamo un altro metro di valutazione, il GDP sia in termini assoluti che, ma solo per completare il quadro, il GDP per persona nelle varie forme a Parità di potere d’acquisto o meno:
ITA GER ITA GDP 1999

ITA GER CPI GDP procapite 1999

ITA GER CPI GDP procapite PPP 1999
E qui vediamo qualcosa di molto interessante, ossia che l’Italia fino al 2008/09 ha effettivamente saputo far crescere il GDP assoluto in modo simile alla Germania per tutto il periodo 1999-2011 (si parla sempre di andamenti vs. GDP nel range temporale proposto, nel caso del GDP l’Italia passa da ca. 1200 billions USD nel 2000 a ca. 2000 a fine 2012 , la Germania passa da ca. 2200 circa nel 2000 a ca. 3400 a fine 2012, dati da grafico; curioso che facendo la percentuale di crescita l’Italia salga addirittura di più, a parità di andamento graficato – scusate le stime grossolane). Questo aspetto sinceramente non l’ho mai rilevato sugli organi di informazione diciamo convenzionali e mette in dubbio l’affermazione sulla relativamente all’asfittica crescita italiana: il GDP assoluto non è poi andato così male se confrontato con la Germania, mentre il GDP per persona, che significa quanto ogni persona ha prodotto di valore annuo, dà indicazioni secondo cui l’Italia è stata meglio della Germania fino alla crisi del 2009, collassando poi dal 2011 quando parallelamente la Germania ha migliorato il suo benchmark e l’Italia lo ha peggiorato.
Ma in ogni caso questo risultato non fa squadra con la produttività, ossia essendo salito il GDP assoluto fino alla crisi – datiamola 2009 – in misura circa uguale in Germania e Italia (in termini percentuali in realtà l’Italia è cresciuta di più), la produttività sarebbe dovuta rimanere circa uguale, ed invece per l’Italia crolla.
Per comprendere cosa è accaduto non dobbiamo dimenticare un concetto: tutto quanto sopra è valido fatto salvo un aumento di ore lavorate, ossia una variazione della disoccupazione può aver fatto scendere o salire la produttività italiana nel primo decennio del nuovo secolo a parità di crescita del GDP rispetto alla Germania. Tanto per gradire, come corollario, l’andamento dei costi del lavoro – sebbene inutile per il calcolo della produttività – per certi versi inaspettatamente sembra non dare un quadro differente visti gli andamenti veramente simili per i due Paesi, grafico seguente (in Germania i costi prima scendono poi salgono, in Italia l’inverso):
ITA GER laboru costs 1999
Dunque, resta l’ultima variabile, ossia che l’Italia si sia trovata a peggiorare la propria produttività durante i primi 9 anni dell’euro a fronte di una circa stabilità di crescita percentuale annua del GDP assoluto rispetto alla Germania e di un aumento delle ore lavorate, ossia una riduzione della disoccupazione italiana nel primo periodo dell’introduzione dell’euro. Possibile? Andiamo a vedere (purtroppo il dato delle ore lavorate è assente per entrambi i Paesi nel database utilizzato quindi dobbiamo fare una proxy con vari indicatori di disoccupazione, in ogni caso ricordiamo che questa vuole essere un’analisi prima di tutto qualitativa):
ITA GER employed persons 1999
E qui mancano dei dati purtroppo, ma qualcosa già si intravede. Vediamo con un altro indicatore, la disoccupazione, che in stabilità di popolazione è una buona proxy:
ITA GER Unemployment 1999
Guarda caso ci abbiamo preso: la Germania ha visto una salita della disoccupazione ed una discesa della popolazione all’atto dell’introduzione dell’Euro e per i primi anni successivi [ossia il numero di ore lavorate è tendenzialmente sceso], mentre l’Italia ha avuto un andamento opposto. Dunque, la produttività tedesca, a circa parità – come abbiamo visto – di GDP è aumentata nel primo periodo dell’euro, diciamo fino al 2006. Di converso, la produttività italiana, con un GDP in leggera crescita – e comunque crescita allineata a quella tedesca – è scesa in virtù di minore disoccupazione italiana in un contesto generale di crescita della popolazione [ossia le ore lavorate sono tendenzialmente cresciute].
Il realtà, molto interessante, la popolazione italiana registrata è cresciuta mentre quella tedesca è scesa nel primo periodo dell’euro, notasi anche il crollo della popolazione italiana nel 2013 e la corrispondente salita di quella tedesca (vedasi grafico successivo). Dunque, tale aspetto rafforza la nostra tesi – e la validità della proxy utilizzata -, aumentando le ore lavorate in Italia nel primo periodo dell’euro in considerazione anche dell’effetto duale di minore disoccupazione in discesa e popolazione in crescita, vedasi di seguito:
Germany ITA 2001-13 Population - Actual Value - Historical Data - Forecast
Ben si capisce come la valutazione della produttività sia estremamente pericolosa e forviante: una riduzione della produttività, come nel ns. caso, si ha con una discesa della disoccupazione a parità di GDP, e questo rischia di essere contro intuitivo. Ricordiamo inoltre che, ad esempio, se la struttura produttiva di un paese non cambia nei fondamentali, difficilmente cambia il modo di impiegare le risorse e di produrre valore, ricordando che grossi cambiamenti di produttività nel medio/lungo termine si giustificano solo con cambiamenti strutturali dell’economia. In ogni caso 10 anni non sembra un tempo sufficiente per cambiare radicalmente l’economia e l’industria di un paese in termini di valore aggiunto per persona impiegata (ossia ad esempio passare da un’economia industriale ad una di servizi o viceversa), almeno per l’Italia.
Negli ultimi 10 anni i veri cambiamenti fondamentali e strutturali in Europa sono stati due: uno, l’effetto della moneta unica post introduzione nei vari Paesi e l’altro la definitiva riattivazione e ristrutturazione degli imponenti residuati industriali della ex Germania dell’Est, con un’operatività giunta a regime.
Alla luce di quanto sopra esposto, chi scrive ritiene che in ogni caso l’unificazione abbia comportato un reintegro della capacità produttiva tedesca ereditata dall’est, con un regolare aumento della produttività fino a prima della crisi mondiale che necessitava inevitabilmente di uno spiazzamento delle altre produzioni concorrenti, in quanto la domanda di beni – soprattutto a medio/alto valore aggiunto quale è il settore di specializzazione tedesco – non è infinita nemmeno a livello globale e dunque in ogni caso un tale eccesso di produttività si sarebbe dovuto scaricare sulla produttività/competitività altrui. Quello che si intende dire è che molto probabilmente il rigore tedesco a partire dal 2011 sia assolutamente compatibile con una politica di lungo termine che mirava a riconvertire l’apparato industriale della Germania dell’est, aumentandone la competitività e dunque la produttività e quindi giunta la crisi il logico passo successivo all’alba di una crisi epocale – ossia in una situazione di potenziale riduzione dei consumi mondiali – era quello di innescare un indebolimento dei paesi concorrenti. E notate bene che i principali mercati di sbocco per i prodotti tedeschi sono ormai quelli asiatici e gli USA, in ogni caso non certamente l’Italia: i paesi europeriferici NON sono rilevanti in termini di consumi di prodotti tedeschi. In questo contesto, applicando razionale cinismo – credetemi, i tedeschi ragionano così -, il futuro della situazione paradisiaca attuale della Germania dipende in gran parte dalla tenuta dei consumi dei paesi in via di sviluppo. E con poche illusioni per i paesi sud europei e per l’Italia in particolare: il Belpaese resterà ancora per un po’ il paese concorrente nella manifattura e quindi, a livello di politica regionale, il recupero economico italiano sarà sempre subordinato alla ripresa dei paesi fortemente consumatori e con infrastrutture da rinnovare, ad esempio i Paesi dell’est Europa. Non è un caso che i mercati emergenti dell’est Europa abbiamo dimostrato una sostanziale tenuta rispetto al recente crollo dei BRICS.
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E si noti bene che quando i mercati puniscono con lo spread l’Italia, o quando le banche faticano a prestare il denaro alle imprese ed ai privati, questo è dovuto solo ai multipli di mercato peggiorati dal 2009 in avanti e crollati dal 2011 in funzione del ritiro della garanzia implicita di un’Europa che ha richiesto di rientrare dai debiti, un po’ come la banca che richiede all’impresa il ritorno del prestito dalla sera alla mattina, pena il fallimento. Ossia i mercati non considerano la mancanza di competitività reale data da uno Stato che non funziona, o delle difficoltà a fare valere i propri diritti in tribunale, o dalle tasse che uccidono il business, o che l’Italia sia lontanissima dalla vetta di qualsiasi classifica su base competitiva reale (vedasi l’ultimo report “dettagliato” dell’ultima statistica del World Economic Forum sulla competitività (vedasi nota ix), ranking in cui l’Italia appare ben posizionata nel settore privato, mentre viene affossata da tutto quello che è istituzionale, menziona speciale negativa per il settore giudiziario). No, i mercati si preoccupano semplicemente del ritorno dei propri investimenti e questo dipende soprattutto – oggi – dal debito pubblico e da quante garanzie il Governo attuale possa dare al fine di soddisfare gli appetiti dei mercati, ovvero dalla possibilità di recuperare il proprio investimento. E tutto questo sulla base di indici economici diciamo “standard”.  Tanto è vero che quello che l’Europa chiede oggi è paradossalmente di incrementare le tasse, anche se questo chiaramente rischia di stritolare l’economia, minando i consumi e la stessa competitività delle imprese residenti e soprattutto impedendo qualsiasi recupero economico. Un grave paradosso, e la produttività è proprio uno di quegli indicatori sintetici, asettici, che vengono utilizzati per giustificare il rigore. Dunque è bene comprenderne il significato se si vuole trovare un modo per uscire da questo cul de sac.
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E qui arriva il momento di fare le considerazioni importanti.
- La Germania nel 1999 era reduce dall’unificazione, con problemi di integrazione con la Germania est.
- In tale momento storico, chiaramente, al di là delle Alpi la disoccupazione non sarebbe potuta scendere come si sarebbe voluto, la Germania non era pronta – anche in termini di infrastrutture ed aziende – né aveva crescita sufficiente per assorbire la manodopera dell’ex DDR (ossia, quella dei compaesani di Angela Merkel).
- Dunque, è giunto l’euro che da una parte ha permesso ai paesi che hanno aderito alla moneta unica di beneficiare di tassi di interesse tedeschi, dall’altra ha dato un forte boost agli investimenti interni dell’EU, investimenti di cui hanno beneficiato tutti, sia il paese che ha aderito all’Unione Monetaria che l’Eurozona intera – e dunque creando le basi per la tanto necessaria crescita interna funzionale all’assorbimento della forza lavoro in eccesso -.
- L’incremento degli investimenti si è materializzato soprattutto in Italia, con investimenti e liberalizzazioni varie, in Spagna+Irlanda, immobiliare ed infrastrutture, in Grecia, Olimpiadi, infrastrutture ed immobiliare, più le liberalizzazioni in tutta Europa: in buona sostanza, gli investimenti interni all’EU si sono materializzati in grande misura soprattutto in quei paesi avvezzi ad alti tassi di interesse e che si son trovati ad avere quasi dalla sera alla mattina tassi molto ridotti, in presenza della necessità di ri-ammodernare le proprie infrastrutture interne.
- Da buona formica la Germania ha approfittato di detto trend che, non dimentichiamo, è stato accompagnato da elevati livelli di consumo e di investimenti da parte dei paesi aderenti all’euro, ricordiamo la cicala Spagna che a nel primo decennio del nuovo millennio è stata la più grande cicala mondiale in termini di current account deficit / GDP (vedasi nota iv) la sensazione di ricchezza dei cittadini spagnoli entrati nell’euro ha incentivato consumi privati veramente iperbolici, che oggi si traducono in gran parte nei prestiti inesigibili delle banche che in tale contesto hanno favorito il credito).
  • Parallelamente i colleghi del nord hanno ampliato la base di mercato espandendosi ad est: in un ammirabile sforzo all’unisono, memento dei tempi andati in cui il modello capitalistico renano con partecipazioni incrociate creava la base per l’implementazione di politiche di business conformi (derivanti dai comuni membri dei CdA delle varie imprese nazionali), le aziende tedesche hanno ancora una volta fatto sistema nell’aggressione dei mercati asiatici e cinese in particolare.
Infatti, visto lo sbocco attuale delle esportazioni tedesche, ossia l’Asia, oggi possiamo ben dire che il tasso di cambio EUR/USD è ugualmente importante per la Germania di quello EUR/Yuan, ricordando che la valuta cinese è stata tradizionalmente legata al dollaro con una sorta di peg (quindi la rivalutazione del dollaro sull’euro corrisponde in misura anche più che proporzionale ad una rivalutazione dello Yuan sulla moneta unica, vedasi grafico sotto riportato).
Germany Exports vs CHI Curr - Actual Value - Historical Data - Forecast
Nel complesso la locomotiva tedesca, silenziosamente e senza clamore, ha approfittato di un euro strutturalmente basso, comunque molto più basso di quello che sarebbe stato il marco tedesco, per finire il processo di unificazione in presenza di un’auto indotta crescita interna all’EU, ossia anche attraverso politiche di liberalizzazione introdotte dall’Europa. Insomma, un capolavoro.
Se poi consideriamo la situazione italiana, la disoccupazione oggi è circa uguale a quella che era all’atto dell’introduzione dell’euro, mentre il GDP è obiettivamente salito; la disoccupazione tedesca è invece scesa a partire dal 2006/07, appena prima che quella italiana iniziasse a salire (nel 2008). Dunque, si evince che la Germania ha utilizzato i circa 10 anni dell’euro per ricostruire la propria economia, a prezzo di permettere nei primi 5/6 anni ai partners di crescere anch’essi, chi con una crescita sana (giusto mix di crescita manifatturiera, immobiliare e dei consumi, come l’Italia) chi con una crescita drogata (ad esempio troppo spostata sui consumi e sull’immobiliare, ad es. Spagna, Grecia ed Irlanda).
Notasi che il crollo della disoccupazione tedesca può considerarsi coincidente con il deprezzamento dell’Euro (anche verso lo Yuan, come abbiamo visto sopra; normale per uno stato fortemente esportatore). Inoltre, come nota aggiuntiva, giova stigmatizzare – grafico a seguire – come il surplus della bilancia commerciale tedesca in valore assoluto sia oggi cresciuto al tal punto da risultare leggermente superiore addirittura a quello cinese, mentre se lo valutassimo in termini procapite risulterebbe almeno un ordine di grandezza maggiore!
China Gere bal trade 1999
O vista in altro modo, grazie all’euro la nuova China si chiama Germania in termini di avanzi (la Germania è probabilmente l’unico Paese tra quelli maggiormente sviluppati – oltre agli USA -, e tra i pochissimi al mondo, ad aver tratto vantaggio dalla crisi del 2008 appunto grazie alla crisi dell’euro ed all’equivalente indebolimento dei paesi periferici, a cui è corrisposto un equivalente rafforzamento della propria economia):
Economist Germany gained from Crisis
Ed ecco il grafico della disoccupazione tedesca vs. cambio EUR/USD:
ITA GER Ccy vs Unemblpoy GER 1999
Guarda caso, il deprezzamento dell’euro è andato di pari passo con l’indebolirsi delle economie dei paesi euro periferici ed al vantaggio relativo della macchina da export tedesca, con conseguente riduzione della disoccupazione tedesca. Grazie all’euro, la Germania ha anche superato la Cina – paese che ha 1.5 miliardi di abitanti, la Germania ne ha circa 20 volte meno (ca. 85 milioni) – come valore assoluto della bilancia commerciale. La Progressione è imbarazzante – attenzione ai valori graficati, la China è in units di 0.1 billions USD e la Germania è in units di billions euro -; inoltre anche la bilancia dei pagamenti tedesca sembra molto positiva a partire dall’inizio della crisi anche rispetto alla Cina:
Crrent Account to GDP CHI GER 2001-13
Se vediamo anzi il grafico della bilancia commerciale tedesca vs. valutazione dell’Euro, la situazione ed il trend sono molto evidenti:
ITA GER Ccy vs bal Trade GER 1999
Sembra che lo spartiacque di ca. 1.18/1.20 EUR/USD più volte stigmatizzato dagli specialisti della finanza sia veramente il livello critico per l’attivazione a pieno regime della macchina da export tedesca. E’ chiaro che la presenza di Paesi suppostamente deboli in seno alla moneta unica fa percepire l’euro ben più debole di quello che sarebbe se fossero computati i soli paesi del nord Europa, men che meno se si computasse solo il blocco tedesco.

Ossia, oggi la Germania sta mandando gran parte dell’Europa unita (quella periferica) in rovina dopo averne tratto tanto vantaggio, ma senza esimersi dal volerla dirigere. La sola cosa che insospettisce, a fronte del nesso ipoteticamente casuale tra gli eventi economici e finanziari, è il timing delle rudi prese di posizione della Cancelleria tedesca a favore dell’austerity, a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, oltre al tempismo di Deutsche Bank nel vendere i BTP Italiani nel 2011 – ben descritto dall’ex Commissario Europeo R. Prodi in un’intervista a Savelli sul Corriere della Sera (notav) assieme all’elaborazione di Mucchetti del giorno successivo (nota vi)- favorendo così l’innesco della speculazione finanziaria sullo spread dei titoli sovrani dell’eurozona periferica.

Infatti, con la crisi, la Germania ormai integrata tra est ed ovest, dal 2008 ha detto la ricreazione è finita: la crisi mondiale avrebbe potuto spiazzare l’occupazione tedesca e quindi era necessario un intervento atto a eliminare occupazione e produzione dai paesi che avevano beneficiato dei tassi bassi, spiazzandoli con quelli tedeschi. E fu così che, sentita puzza di austerity, è partita la grande speculazione sui titoli dell’Eurozona con conseguente credit crunch tanto più evidente in quei paesi – come l’Italia – in cui la struttura economica ha preminenza industriale, in particolar modo se trattasi di piccole e medie aziende. Per il resto siamo ai giorni nostri. Questo almeno è uno scenario che si può evincere dai dati.
Come pensiero laterale, mi vengono in mente non so per quale coincidenza le acciaierie di Taranto: hanno inquinato per decenni nel silenzio generale di magistratura ed istituzioni e proprio quando l’industria tedesca dell’acciaio arrancava [per eccesso di produzione mondiale e bassa domanda anche prospettica, ndr] l’hanno chiusa, che caso…

In generale, per il futuro visti i trend in atto ci si può attendere un ulteriore indebolimento dei benchmarks economici italiani, sebbene la produttività italiana possa stabilizzarsi a causa di una discesa prospettica sia del GDP che dell’occupazione: chi scrive ipotizza ulteriori tensioni soprattutto sociali, purtroppo. Parallelamente la Germania ne approfitterà, un po’ attraverso il vantaggio dei saggi di interesse sulle obbligazioni nazionali, oggi con un differenziale superiore ai 2 punti percentuali, ed un po’ per lo spiazzamento delle aziende italiane incapaci ad esempio di finanziarsi a tassi di interesse reali bancari che superano in media pesata almeno di 4 o 5 punti percentuali quello delle omologhe aziende tedesche. In questo contesto appare logico che la Germania approfitti dell’indebolimento delle aziende italiane per accaparrarsele, quando possibile e/o permesso.
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Poi, possiamo anche dire che in Italia si sarebbe potuto fare di più, certissimo. Potremmo dire che si è perso tempo, verissimo. Si può dire che un primo ministro era impegnato in notti brave, e peccato che non mi abbia invitato.
Ma la sostanza macroeconomica resta la stessa: la Germania ha approfittato dell’euro ed ora che dovrebbe rendere il favore, avendo risolto i propri problemi post unificazione, mette invece alla fame l’Europa periferica. E questo per propri interessi chiari ed espliciti, interessi economici, ben evidenziati sopra: in assenza di crescita causata di una crisi globale che tarderà molto a risolversi i posti di lavoro tedeschi devono essere preservati, così come il livello di vita della popolazione tedesca.
In effetti sembra si stia concretizzando il piano per l’Europa comune che ideò circa 70 anni or sono il Reich: sud con industria leggera e agricoltura con l’aggiunta del turismo che allora non esisteva nella forma attuale; nord produttivo ed industriale, una banca centrale, una moneta unica, un centro di settlement dei pagamenti internazionali che faccia passare i flussi da Berlino (oggi Francoforte, di fatto quello che è stata in passato la Bank of International Settlement, oggi sostituita da gestori di flussi ed investimenti finanziari) e non da Londra, una polizia comune (fu l’Interpol all’inizio, con ben quattro presidenti tedeschi dal 1938 al 1942, ndr), e tutto questo con lo scopo di mantenere alto il livello di vita delle popolazioni del nord Europa, lasciando il ruolo di consumatori non ricchi e di forza lavoro a basso costo ai periferici. E badate bene che non sto vaneggiando, sto solo riportando il programma economico per la futura Europa unita, come riportato nel preziosissimo documento indicato nelle note (nota vii), di cui uno dei principali contributore fu per altro il Ministro del Reich Walther Funk (che fu anche nel direttivo della Banca per i Regolamenti Internazionali di Basilea, quella che oggi è la BRI, istituzione nata per gestire i flussi dei pagamenti derivanti dall’accordo di pace con la Francia della prima guerra mondiale). Ricordiamo infatti che la seconda guerra mondiale fu per molti versi la prima guerra scatenata per motivi squisitamente economici, a seguito dell’enorme disagio nel pagamento dei debiti imposti alla Germania dal trattato di Versailles, a cui seguì l’iperinflazione tedesca del 1921, la grande depressione mondiale del 1929, la salita al potere di Hitler e l’attivazione delle industrie tedesche in funzione bellica con riduzione della disoccupazione interna, la guerra per lo spazio vitale, l’intervento degli Alleati e la fine del Reich. Successivamente si innescò la crescita da ricostruzione che tanto fu funzionale alla soluzione definitiva della crisi economica globale fino al 1939 ancora fondamentalmente irrisolta (memento, i disoccupati USA, erano nel 1932 intorno a 12,5 milioni, 7,5 nel 1937, di nuovo a 10 nel 1938; nel 1940 erano ancora 8 milioni, livello che man mano scese a causa dell’impegno bellico americano, ricordando che dopo la guerra l’industria americana fu l’unica ad uscirne indenne e quindi a potersi impegnare nella ricostruzione).

E per coloro che dicono che è giusto, le proprie colpe si pagano relativamente al cicalismo italico degli ultimi decenni, vorrei ricordare che la Spagna, tanto per parlare di terzi, è stata sempre la darling europea – come darling dell’FMI fu l’Argentina pre default 2001 –nella disciplina dei conti, applicazione delle leggi europee, rappresentanza in Europa (questo accadeva mentre era la cicala europea e mondiale). E dove si trova oggi? Peggio dell’Italia, in quanto ha addirittura privatizzato le aziende strategiche, e quindi non potrà approfittare di una futura ripresa (quando mai ci sarà) magari – ma si, diciamola tutta! – drogando la crescita nazionale con una “sovvenzione” pagata da flussi di denaro esteri provenienti dalle multinazionali di Stato, quelle che per intendersi da noi si chiamano ENI, ENI, Finmeccanica etc.
Dunque, tornando a quanto fatto da Mario Monti, per quanto mi riguarda le possibilità sono due: o la persona è profondamente incompetente, e non lo credo affatto, o semplicemente non fa gli interessi del proprio Paese, probabilmente – ma è solo una supposizione – per bramosia di carriera (europea). Si, perché quello che doveva fare non era imporre l’austerity targata Merkel, austerity che ha fiaccato un’economia italiana già al limite e che probabilmente la porterà ancora più giù, ma doveva fare perfettamente il contrario, stimolare! Magari derogando ai patti europei proprio come fece la Germania nel 2003. E sfidando la Germania!!! E questo soprattutto alla luce del fatto che l’Italia non ha ricevuto regali dall’Europa, essendone ancora oggi creditore netto! Caro Professore, quante sofferenze ha sulla coscienza!
Con la cura da cavallo che ha affibbiato alla Penisola, in un momento già difficile e chiaramente di svolta da post crisi mondiale e viste le conseguenze per il Paese, si sarebbe dovuto fare ben altro invece che riconoscergli la carica di senatore a vita!. Ripeto, come sostengo da anni ormai – da febbraio 2012 per la precisione, in effetti solo ca. un anno e mezzo – , quello che doveva fare era esattamente il contrario, ossia chiedere alla Germania di sacrificarsi e non l’inverso. O quanto meno far desistere Frau Merkel dal richiedere sacrifici in quel preciso momento. Anche perché, e qui vedremo gli ultimi grafici, la crisi del debito ha dato il colpo finale alla crescita italica (le drammatiche conseguenze le vedremo nei prossimi mesi).
ITA GER 10YRS vs GROWTH ITA 1999
Vediamo qui la correlazione tra tassi dei bonds italiani a 10 anni e crescita del GDP, inversamente correlati. Anzi, andando un po’ più sul sottile – alla fine spesso ce ne scordiamo ma Mario Monti è pur sempre un professore di economia – andando a prendere l’andamento dei tassi a 10 anni vs il rapporto tra partite correnti e GDP (ossia i tassi dei bonds confrontati con il deficit percentuale delle partite correnti) si nota che fin dall’inizio del 2011 la situazione era già brutta, e quindi una cura da cavallo in tale momento avrebbe rischiato di essere fatale. E certamente il professore lo sapeva: dunque, Mario, ma perché l’hai fatto (proprio in quel momento)?
ITA GER 10YRS vs Curr Acc to GDP ITA 1999
Di fatti, vedendola ora, l’austerity è stata si fatale, abbiamo tutti davanti agli occhi cosa è successo (per altro nemmeno il Professorecon la sua cura da cavallo è riuscito a fare tornare in positivo il benchmark current account to GDP percentuale), senza dimenticare quello che verrà: ricordiamo che, sebbene la produttività possa non crollare a causa del contemporaneo crollo del GDP e dell’occupazione, ci sarà comunque un indebolimento di altri parametri chiave, in primis la capacità dello Stato di fare fronte alle proprie spese (e qui ci si aggrega ad altri autori nel chiedere un vero ed importante taglio dei costi della funzione pubblica).
Vediamo cosa è accaduto alla spesa per i consumi di Italia e Germania, stigmatizzando le conseguenze della politica montiana degli ultimi due anni:
Consumer Spending ITA GER
ITA Consumer spending and Bonds
Si vede bene come la discesa del consumer spending si sia concretizzata nel 2011. Notasi inoltre che l’andamento dei consumi italiani è peculiare rispetto ad altri Paesi periferici colpiti dalla crisi, ossia è chiaro che in Italia è successo qualcosa nel 2011 al contrario ad esempio della Spagna dove l’effetto della crisi ha iniziato ad evidenziarsi in modo graduale dal 2008:
SPA Consumer spending and Bonds
ITA SPA Consumer spending

Quest’ultimo grafico rappresenta bene come l’Italia abbia visto un crollo dei consumi anche e soprattutto rispetto al collega di sventura nella crisi chiamato Spagna (occhio alle scale di riferimento, è imperativo cogliere il trend comparato: infatti in termini assulti la Spagana è collassata maggiormente dell’Italia ma quest’ultima ha visto un cambio di passo – in negativo – molto peculiare ed inaspettato proprio in coincidenza dell’effetto delle misure montiane). E questo rappresenta bene lo specifico effetto sull’Italia delle politiche economiche di Mario Monti. Infatti, la crisi non basta a spiegare un effetto differenziale così accentuato tra due paesi periferici oggi in situazioni simili. La realtà secondo chi scrive è che le politiche del Governo Monti oltre ad incidere economicamente hanno anche e soprattutto tolto certezza del diritto a tutti i livelli sociali. Prendiamo due esempi, probabilmente i due estremi: i provvedimenti sugli esodati e sullo scudo fiscale. In entrambi i casi, che non voglio commentare nello specifico – sebbene tenga a sottolineare come il primo sia ordini di grandezza più grave per l’impatto sulla popolazione -, quello che è stato fatto è negare delle promesse che lo Stato aveva fatto ai propri cittadini, minando la fiducia nelle istituzioni presente e futura, oltre che annullare il principio del legittimo affidamento che sta alla base di un normale rapporto tra Stato e contribuenti. Il risultato è stato logico e razionale: minori consumi dei cittadini/contribuenti, risparmiando il più possibile al fine di fronteggiare un futuro incerto non solo economicamente ma anche contrattualmente (nei rapporti con lo Stato), rendendo di fatto pressochè impossibile la ripresa, oltre a minare alla base i conti pubblici che tanto dipendono dai consumi e dall’occupazione nazionale (senza dimenticare l’effetto del GDP nel rapporto Debito/GDP: se il GDP scende il rapporto sale…).
E se qualcuno volesse ancora essere ottimista, concludo con la rappresentazione dell’andamento dei consumi in Grecia ed Italia, lasciando a voi ogni commento su cosa può riservarci il futuro (sempre un occhio alle scale, l’Italia fortunatamente non è collassata come la Grecia ma sembra essere l’unico paese EU che dimostra la continuazione di un serio trend peggiorativo dei consumi interni assieme al collega ellenico):
ITA GRE Cons Spending 2001-13
Ben ricordando che, pur con le cure draconiane che i cittadini greci hanno dovuto sopportare in questi anni, alla fine il debito previsto resterà attorno al 153% nel 2015 con un debito estero addirittura in forte crescita, ossia schiavi per sempre del debito (estero! Ossia, base previsioni, quello che i cittadini greci pagheranno in interessi andrà nelle casse dei partners europei, contribuendo a mantenere alti i rispettivi livelli di vita). Vedete le previsioni per la Grecia nella tabella seguente:
Greek Debt Fcast
Tale quadro ben rappresenta il perchè la crisi dovrà ulteriormente acuirsi per l’Italia, ossia ci vuole del tempo prima che una così forte riduzione dei consumi si traduca in un peggioramento dei benchmarks economici che interessano ai mercati, in particolare facendo riferimento all’incremento del debito e/o all’impossibilità di fare fronte alle spese dello Stato per via di una minore base imponibile ossia minore gettito: ricordiamo infatti che l’intervento della troika in Grecia è coinciso più o meno con il superamento di un debito statale su GDP di circa il 140%, valore che l’Italia raggiungerà con buona probabilità entro il 2014 in assenza di misure straordinarie.
E visto che tutti sembrano puntare alla mancanza dei competitività per giustificare i mali dell’Italia, che è come dire ridotta produttività, tanto per fare la prova del nove vorrei andare a vedere cosa successe nel lontano 1992. E dimostrare il perché l’eventuale uscita dall’euro dei periferici – soprattutto dell’Italia – sia tanto temuta ed osteggiata dalla direzione euro tedesca.
Si vede infatti molto bene come a fonte della svalutazione della lira del 1992/93, la produttività italiana abbia fatto un balzo rilevante in confronto ai partners europei, Francia inclusa (che guarda caso anch’essa svalutò la propria valuta nazionale, nell’agosto 1993, aprendo la strada per l’introduzione dell’euro), a fronte di solo un lieve incremento della disoccupazione italiana. E’per altro importante confrontare la crisi del 1992 con quella attuale, in quanto gli andamenti sulla produttività differiscono in modo sostanziale.
ITA Productivity and Uneployment 1985-2013
ITA GER Productivity 1992-2013
ITA FRA Productivity 1992-2013
Parallelamente, chi scrive ritiene che eventuali maggiori tasse future comporteranno minore gettito per lo Stato, situazione che inevitabilmente obbligherà a scelte drastiche ed inconsuete, (patrimoniale? Nazionalizzazione con trasferimento in seno all’INPS dei fondi pensioni privati?). Infatti, in tale caso ci sarebbe un’ulteriore compressione dei consumi e dunque di tutte le voci di gettito ad esso legate (oltre all’effetto indiretto di minore occupazione in attività economiche che si basano sui consumi dei cittadini, ad es. commercio al dettaglio).
E che la strada del risanamento seguita dall’Italia sia stata anticonvenzionale in termini di effetti indotti sull’economia è provato dal grafico successivo: al fine di evitare un melt down economico la Spagna ha evitato cure troppo drastiche, decidendo invece di sforare deliberatamente i limiti europei (la politica spagnola si è focalizzata sul raggiungimento di tale obiettivo). L’Italia invece ha voluto mantenere la linea del rigore e la situazione di oggi è chiaramente il frutto delle decisioni passate (ossia, o ci spiegano che ci sono ragioni nascoste per cui Mario Monti ha deciso di comportarsi in tale maniera o la situazione rasenta il paradosso peggiore, quello tragico). Ed infatti non stupisce che l’Italia per bocca dell’OECD sia a fine Agosto l’unico Paese del G7 ancora in recessioneviii, essendo questa una logica conseguenza delle misure attuate in passato, appunto dal governo del Professore.
SPA ITA Government Budget 2009-2013
In conclusione mi sento di dire che, visto quanto sopra, l’unica richiesta che possiamo fare a Mario Monti è di fargli prendere la cittadinanza di un altro Paese, diciamo la Germania. Così sarebbe quanto meno coerente.
Per quanto riguarda invece il ns. ingombrante partner europeo, a cui non mi sento di recriminare alcunchè – ci mancherebbe, fino ad ora è stato un capolavoro e fino a prova contraria non ha rubato nulla – se non raccomandare generale cautela (stanno ottenendo il massimo risultato possibile, tutto quello che sale prima o poi scende, in un modo o nell’altro), vorrei solo ricordare loro che di questo passo l’unica cosa che i cittadini dei paesi periferici rischiano di poter fare è di insegnare ai propri figli, fin da quando sono in fasce, di non fidarsi dei tedeschi perché sono approfittatori ed egoisti. Concetto che, tradotto in un linguaggio popolare di qualcuno più spiccio di me nel trarre le conclusioni, si potrebbe riassumere in “cattivi e pericolosi” o considerazioni simili. Se una generazione di suppostipartners cresce con questo imprinting, cari tedeschi, ne riparliamo fra vent’anni….

Mitt Dolcino

Fonte dati : Tradingeconomics.com , tranne dove diversamente indicato
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Referenze e Note:
i    Prices and earnings, Price comparison – UBS AG, CIO Wealth Management Research, September 2012
ii    Measuring Productivity – OECD Manual -MEASUREMENT OF AGGREGATE AND INDUSTRY-LEVEL PRODUCTIVITY GROWTH,http://www.oecd.org/std/productivity-stats/2352458.pdf; non sono disponibili nei database a cui abbiamo accesso le ore lavorate, per cui si è costretti a deviare su proxy.
iii   Produttività: la chiave della competitività dell’economia e delle imprese europee, Sintesi legislazione EU, Comunicazione della Commissione, del 21 maggio 2002, concernente la produttività: la chiave della competitività delle economie e delle imprese europee [COM (2002) 262 def]
v   «La scelta di Deutsche Bank? Un suicidio», Corriere della Sera, 28.07.2011, articolo/intervista di F. Savelli a R. Prodi
vi   Chi scommette contro di noi, M. Mucchetti, Corriere della Sera, 28.07.2011
vii  “Europäische Wirtschaftsgemeinschaft”, – Berlin 1942, The Society of Berlin Industry and Commerce and the Berlin School of Economics – Editore: Haude & Spener, 1943 / Berlin – WorldCat OCLC number: 31002821
viii  “Ocse, Pil Italia giù del 1,8% in 2013. E’ l’unico negativo tra paesi del G7”, Repubblica, 03.09.2013