martedì 23 luglio 2013

Il colpo di Stato in Egitto: islamismo, democrazia, rivoluzione


Il colpo di Stato in Egitto: islamismo, democrazia, rivoluzione



Santiago Alba Rico Σαντιάγκο Άλμπα Ρίκο سانتياغو البا ريكو 
rebelion.org/noticia.php?id=170755
Tradotto da  Francesco Giannatiempo


Possiamo parlare di “rivoluzione” in uno di questi due casi:
    • Quando una maggioranza sociale, con interessi diversi o meno e addirittura senza un programma politico, rovescia una dittatura.
    • Quando un programma politico di mutamenti radicali, con o senza le armi e con l’appoggio di una maggioranza sociale, si impone su una “democrazia borghese”.
In Egitto si è avuta una rivoluzione nel 2011 stando al primo dei due significati. Finora non c’è stata nessuna rivoluzione riguardo al secondo caso. E, ora, il caso del rovesciamento di Morsi è evidente che non combacia con nessuna delle due definizioni. Non c’era nessuna dittatura da rovesciare in Egitto (se non una “democrazia borghese”) e non c’è in gioco nessun programma politico di mutamenti radicali, almeno appoggiato dalla maggioranza della piazza. Quando sono le armi di un esercito fascista a rovesciare una “democrazia borghese”, questo si chiama – tecnicamente e politicamente – “colpo di Stato”. Se milioni di persone, comprese molte di quelle rivoluzionarie secondo il primo significato del termine, chiedono un colpo di Stato, non per questo cessa di essere un colpo di Stato. Se migliaia di persone in piazza non vogliono l’intervento dell’esercito – perchè sono rivoluzionarie anche nel significato del termine – la loro volontà rimane completamente annullata dal colpo di Stato. Un esercito fascista che destituisce un presidente eletto, che sospende la costituzione e scioglie il parlamento, che arresta i dirigenti del partito di maggioranza, chiude le loro televisioni e spara sui loro sostenitori, sta mettendo in atto un colpo di Stato. Se lo appoggia molta gente, lo ottiene con facilità. Se per di più lo appoggia la sinistra e lo chiama “rivoluzione”, allora lo ottiene molto facilmente.
Finalmente liberi! A sinistra, la Fratellanza Musulmana; a destra il Consiglio supremo delle Forze Armate
Vignetta di 
Carlos Latuff


Nel mondo arabo non esistevano nè esistono condizioni per cui si verifichi una rivoluzione come nel secondo caso qui descritto. Perché era importante che si verificassero rivoluzioni come nel primo dei significati? Per due motivi. Il primo, perché la fondazione di una “democrazia borghese” sotto la spinta dei popoli avrebbe permesso la formazione di un nuovo soggetto politico e la costruzione - con le nuove condizioni democratiche – di alternative collettive fino ad ora inesistenti e inimmaginabili. Il secondo, perché una “democrazia borghese” avrebbe portato alla luce la reale relazione tra le forze nella zona, favorevole agli islamisti. Ciò avrebbe rappresentato un pericolo, è vero, ma anche una necessità inevitabile, dato che tutte queste dittature avevano giustificato il proprio potere – e la repressione di tutte le espressioni politiche, compresa la sinistra – contro il “terrorismo islamico”, che loro stesse alimentavano, in un ciclo felicemente eterno per i capi, attraverso la repressione e la tirannia. La normalizzazione politica accenderebbe la speranza di una “democratizzazione dell’islamismo” attraverso l’esercizio del governo, come in parte è accaduto in Tunisia e anche in Egitto prima del rovesciamento di Morsi. La ricerca del confronto a qualsiasi costo e la strategia di assillo e di demolizione con qualunque mezzo, può solamente far abortire, per così dire, “la maturazione del fallimento” del progetto islamista; la qual cosa è inevitabile, ma che deve verificarsi in un ambito democratico, altrimentivorrebbe dire tornare al tragico “giorno della marmotta” che da decenni sta insanguinando la zona e soggiogando la popolazione. La sinistra, per disgrazia, si è prestata a questo gioco in cui può vincere solamente l’”ancien regime”.
Ma c’è un altro motivo per cui la sinistra dovrebbe comprendere la necessità di rispettare le regole del gioco che essa stessa ha contribuito a stabilire con le rivoluzioni democratiche. Nel mondo arabo – e in Tunisia e in Egitto in maniera molto chiara – ci sono due ambiti egemonici paralleli: uno, delle classi popolari, modellato dall’islam politico; e l’altro delle classi medio-alte, plasmato dalla destra laica. Durante le dittature, la sinistra - repressa, isolata, presa tra i due ambiti - si dichiarò sconfitta nel territorio che le era naturale, quello delle classi popolari, e finì equiparata a quello della destra laica, non tanto perché fosse scesa a patti con questa – e lo fece spesso – quanto perché finì isolata dalla strada e chiusa nell’ambra di un elitarismo – se non classista – culturale e intellettuale.

Un amico che anni fa lasciò Nahda profondamente disgustato, nel cercare di elaborare un progetto di “islamismo della liberazione” secondo il modello della “teologia della liberazione”, rimprovera sempre al Fronte Popolare tunisino questo distanziamento elitario della cultura popolare; ed evocando espressamente Chavez, assicura che la Tunisia sarà comunista solamente il giorno in cui, al posto di impegnarsi a svuotarle, i comunisti predichino il comunismo dalle moschee. Ciò serve a tutta l’area e, certamente, anche o soprattutto all’Egitto. Costruire un nuovo ambito egemonico delle sinistre nel mondo arabo presuppone la normalizzazione politica dell’islamismo, il suo logoramento controllato e la sua radicalizzazione – verso sinistra – dall’interno della cultura popolare. Un colpo di Stato basato unicamente sull’anti-islamismo (contando, quindi, sulle forze molto più potenti e già comprovate come nefaste della destra laica), non solo non è una rivoluzione nel secondo significato sopra richiamato, ma che faccia fallire la rivoluzione come nel primo caso, condizione di qualsiasi cambiamento profondo si voglia fare in futuro. Questo è quanto successe in Algeria nel 1992, con il risultato a tutti noto. Adesso può essere anche peggio. Tutti citiamo spesso la frase di Marx: la storia si ripete  due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Non è vero. Si ripete molte volte. La prima come tragedia, la seconda come catastrofe, la terza come inferno, la quarta come apocalisse. Non vedo cosa la sinistra possa guadagnare da questa sequenza mortale… (1)

Nota
(1) Che questo spostamento “dentro la cultura popolare” sia  possibile, lo dimostra l’America Latina, dove alcuni progetti di emancipazione in corso - in Venezuela, Bolivia, Ecuador- sono stati possibili grazie a una “maturazione” entro un “ambito democratico borghese”. Tutto il mondo sarà d’accordo che la nota “rivoluzione bolivariana”, con la sua forte componente - almeno formale - di “democrazia partecipativa”, sarebbe stata impossibile se Chavez fosse arrivato al potere attraverso il colpo di stato del 1992. Chávez non era ancora Chavez, però era migliore – sideralmente migliore - di Abdelfath Al-Sisi.       

venerdì 5 luglio 2013

L’emblema di Min

L’emblema di Min

Sulla superficie di gran parte dei menhir custoditi nel museo di Laconi, appaiono due petroglifi sovrapposti, uno dei quali è generalmente definito come “rovesciato” o “capovolto” -lo spirito del defunto che ritorna alla madre terra-, mentre l’altro è spesso interpretato come “pugnale bipenne”.
Differenti immagini del “rovesciato” sono presenti, come noto, in alcune tombe rupestri risalenti all’eneolitico, come la tomba “Branca” di Cheremule e quella di “Sas Concas” di Oniferi.
Nella tomba di “Sos Furrighesos”, ad Anela, questa immagine si presenta invece in una forma semplificata, identica all’ideogramma geroglifico in “ka”(spirito), che gli egizi rappresentavano con le due braccia sollevate.
Per quanto riguarda il simbolo inciso sulla base dei menhir, a parte dover considerare che in una manifestazione spirituale come il passaggio dalla vita alla morte la presenza di un coltello apparirebbe fuori tema, è la stessa concezione di “pugnale bipenne” a sollevare diverse perplessità, perché se un’ascia a lame contrapposte è effettivamente esistita e poteva svolgere la sua funzione offensiva perché dotata di un manico sufficientemente lungo, un analogo pugnale sarebbe stato assolutamente pericoloso per chi lo brandiva, ma ottimo per ferirsi accidentalmente o per suicidarsi.
A prescindere da queste considerazioni, come osservato da Nicola Porcu[1] nel suo libro di prossima pubblicazione [2], questo misterioso graffito è simile agli ideogrammi geroglifici rappresentativi dell’utero femminile[3], emblema del dio itifallico Min [4], che racchiudeva in sé entrambi i principi, maschili e femminili (analoga caratteristica era posseduta da Amon-Ra, di cui Min era una manifestazione).
L’accostamento all’iconografia egizia non può sorprendere, considerate le frequentazioni delle antiche popolazioni sarde con la terra dei faraoni.
I due simboli potrebbero allora raffigurare, congiuntamente, l’anima dell’uomo che ritorna alla terra attraverso l’utero materno, dando corpo al modo di dire “torranci in su cunnu” che in lingua sarda assume un significato offensivo, ma che a quei tempi poteva invece intendersi come un auspicio di rinascita attraverso il ventre materno, inteso come fonte di vita.
Inoltre, se il menhir può considerarsi un monolite legato al culto della fertilità, l’accostamento fonetico delle parole Min (utero) e Ka (spirito), non potrebbe essere più appropriato.
Per quanto mi riguarda, ho cercato di individuare altri elementi a sostegno della tesi di Nicola Porcu che mi era parsa da subito piuttosto convincente.
Una conferma l’ho trovata nell’immagine fotografica di una statuetta bronzea conservata al Museo Nazionale di Madrid, riportata nel volume “L’Arte dei Fenici” di Sabatino Moscati e datata VI / V sec.a.C.



L’incisione verticale visibile su di essa, simile a un doppio fuso con un suo spigolo in corrispondenza della vagina, anch’essa chiaramente evidenziata, non è altro che la riproduzione schematica e ampliata dell’apparato genitale femminile -composto appunto dalla vagina, dal collo dell’utero e dall’utero- ed è straordinariamente somigliante, se ruotata di novanta gradi, al graffito che appare nella parte inferiore dei menhir di Laconi.
Ritornando a Min, questa divinità si presentava anche in forma di “ka-mut-f” = toro di sua madre, dove “ka” è il termine geroglifico che indica il toro e “mut” la madre.
Orbene, nei menhir di Laconi i segni che appaiono sulla sua superficie possono considerarsi, a mio avviso, una crittografia amunica che si aggiunge a quelle rinvenute in diversi amuleti egizi ritrovati in Sardegna e ben descritte e analizzate da Aba Losi e da Romina Saderi.
Difatti se nel menhir, simbolo di fertilità, è presente l’effige della “Grande Madre”, con il “nasino” che compare sulla sua sommità e soprattutto con l’emblema del dio Min raffigurante l’”utero” (in altri contesti, come nei menhir di Tamuli, il principio femminile è invece evidenziato da protuberanze mammillari), è altrettanto vero che la sua forma e il suo profilo rimandano a una rappresentazione fallica, sottolineata dalla presenza del “ka” (il rovesciato) che, come detto, a parte il significato di spirito, aveva anche quello di “toro”, uno degli appellativi di Min.
Sui monoliti di Laconi possono quindi leggersi le parole “ka” e “mut” della dizione “kamutef”, uno degli appellativi di Min ma anche di Amon-Ra, di cui Min era, come detto, una manifestazione (e viceversa).
Vorrei aggiungere un’altra considerazione riferita al menhir inteso come l’elemento solido che potrebbe esattamente riempire lo spazio vuoto all’interno della tholos nuragica. Se sulla superficie del menhir sono riportati i termini egizi “ka” e “min”, si potrebbe anche ipotizzare che esso voglia raffigurare lo spirito di Min (Amon/Min) che alberga dentro il nuraghe, inteso quindi come “casa del dio”.
Questa circostanza è avvalorata dal fatto che la tradizione nilotica indica la casa di Min come una sorta di tenda dal tetto conico.
Per di più, nelle “case della vita”(per-ankh), i fabbricati egizi dove i sacerdoti/sciamani apprendevano i segreti della loro arte, era presente una tenda che accoglieva le reliquie di Osiride, signore dell’occidente, che il sincretismo religioso accomunava ad Amon/Min, anch’esso signore dell’Occidente e del regno dei morti.
In un articolo di Nica Fiori del Marzo 2005, si parla di questa tenda con riferimento al papiro Salt 825, in cui è scritto che ”il dio della terra Geb sarà il suo pavimento, la dea del cielo Nut il suo soffitto….il sole deve penetrarvi”.
In questa breve frase sono compresi i nomi delle tre divinità del cielo (Nut), del sole (Ra) e della terra (Geb), il cui insieme induce a qualche riflessione.
Nica Fiori, sempre riferendosi ai “maghi” che albergavano all’interno della casa della vita, scrive che “la divinazione avveniva utilizzando un vaso pieno d’acqua….l’acqua era ritenuta un mezzo eccellente per comunicare con il cielo e con il mondo intermedio. Altre volte era lo stesso mago a cadere in un sonno ipnotico”.
L’esistenza di un pozzo all’interno dei nuraghi, o comunque la costante presenza di una vena d’acqua o anche di vasi come quello rinvenuto all’interno del nuraghe Arrubiu, appositamente forato per consentire il deflusso, potrebbe giustificare una profonda analogia tra le case della vita e gli stessi nuraghi dove, alla presenza del sacerdote/sciamano, è presumibile che si svolgessero riti ordalici connessi al culto dell’acqua, e pratiche d’incubazione, elementi tipici dello spirito religioso delle nostre antiche popolazioni [5].


[1] Nicola Porcu è Ispettore onorario della Soprintendenza per i beni subacquei delle ex Province di Cagliari e Oristano, nonché sommozzatore professionista;
[2] “Hic-Nu-Ra, racconto di un’altra Sardegna”

[3] E’ interessante osservare come nell’antico Egitto fosse in uso la mummificazione dell’apparato genitale femminile delle donne più altolocate, nella convinzione che in esso si celasse il segreto della rigenerazione della vita

[4] Min, in associazione con Amon, dio dell’occidente e del mondo dei morti, darà vita ad Amon-Min, dio itifallico della virilità e della potenza rigeneratrice.

[5] Cfr.: Raffaele Pettazzoni: “La Religione Primitiva in Sardegna”