lunedì 4 ottobre 2010

“L’80% dell’acqua del pianeta è contaminata” Nature lancia l’allarme

ilfattoquotidiano.it
Questa è una vista della cascata dall'inizio del sentiero per il Curò, a circa 1 km dal paese di Valbondione.


Le cifre sono allarmanti: l’80% delle acque dolci del pianeta sono già contaminate o a rischio contaminazione. Da questa minaccia sono toccati circa 3,4 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione mondiale. E la situazione rischia di peggiorare nei prossimi anni, a causa dei danni provocati dal cambiamento climatico e dalla costante crescita della popolazione.

L’allarme lo lancia un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Nature e firmato da un’equipe di studiosi guidata da Charles Vorosmarty della City University di New York e da Peter McIntyre dell’Università del Wisconsin. Lo studio è importante perché può essere considerato quello che “per la prima volta raccoglie tutta la nostra conoscenza sotto un unico modello globale di sicurezza delle acque e perdita della biodiversità”, secondo Gary Jones, direttore dell’eWater Co-operative Researce Centre di Canberra, in Australia.

Il quadro che emerge dallo studio di Nature è quello di un pianeta in cui le risorse idriche sono sfruttate in modo complessivamente squilibrato. Attualmente l’approvvigionamento dell’acqua, potabile e non, deriva prevalentemente da un lavoro di ingegneria. Dighe, drenaggi e riserve sono il modo in cui l’uomo risolve i problemi della scarsità e dell’inquinamento delle falde. La soluzione tecnologica ha però due controindicazioni. La prima è nei costi, che per tenere la situazione in equilibrio dovrebbero aggirarsi, secondo gli autori dello studio, intorno agli 800 miliardi di dollari annui entro il 2015.

La seconda è che tali costi sono insostenibili per chi non fa parte del “club” delle nazioni industrializzate ricche o emergenti, queste ultime rappresentate dai paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina). Complessivamente non più di un miliardo di persone. Ragion per cui Vorosmarty e MacIntyre suggeriscono di puntare sulla lotta al cambiamento climatico piuttosto che sulla continua manipolazione della natura da parte dell’uomo, che rischia solo di mettere l’ ambiente ulteriormente sotto pressione.

E in Italia, quanto è grave la situazione? C’è rischio anche da noi di stress da sfruttamento idrico, dato il quadro di sprechi, e scarso rispetto dell’equilibrio ambientale? “Il modello di gestione idrica urbana deve essere profondamente rinnovato” risponde Katia Le Donne, dell’ufficio scientifico di Legambiente. L’associazione ha denunciato nel libro bianco sull’emergenza idrica del 2007 e in altri rapporti successivi, la situazione in cui versa il nostro Paese. Al 60% di acqua destinato ad usi agricoli e il 42% di perdita dai tubi colabrodo (con punte del 70% a Cosenza) di una rete di distribuzione che andrebbe completamente rinnovata si aggiunge un costo troppo basso dell’acqua (52 centesimi al metro cubo, la metà della media europea) che induce inevitabilmente allo spreco.

“Da oltre un decennio, sostiene Le Donne, ad occhi esperti di tutto il mondo, risulta sempre più chiaro che il modello di gestione delle acque nelle nostre città – basato sul ciclo: prelievo distribuzione, utilizzo, fognatura, depuratore, e re-immissione finale – non è sostenibile, perché comporta un uso eccessivo di risorse idriche di altissima qualità. Perché, ad esempio, per scaricare un WC si fa uso acqua potabile? Tutto questo genera uno spreco enorme senza ridurre l’inquinamento.

Ma lo studio Nature non rischia di essere la solita scusa degli ambientalisti per non fare nulla? “Non direi, continua Katia. La sfida della gestione della risorse idriche non si riduce alla semplice e demagogica questione: lasciamo tutta scorrere così come natura crea…questo modello anche sarebbe tanto insostenibile per quanto improponibile alle società di oggi. Al contrario chi si occupa di Ambientalismo Scientifico propone un nuovo approccio uno addirittura più complicato di quello che ci hanno proposto e imposto finora e che è altrettanto insostenibile come il primo. La via d’uscita, invece, è quella di superare l’approccio per cui prima si sommano le richieste idriche (industriali, agricole, civili) e poi si cerca disperatamente di soddisfarle”. Un buon consiglio per il pianeta a cui certo l’Italia non sfugge.

venerdì 1 ottobre 2010

La strategia dei virus influenzali

Scritto da Mauro Delogu

http://www.nuovainfluenzah1n1.info

Ecologicamente, i virus influenzali si comportano in natura come micropredatori dal ruolo eclettico. A differenza di patogeni strettamente legati a una sola specie ospite e quindi capaci di «controllare demograficamente» singole specie animali, i virus influenzali hanno sviluppato una strategia evolutiva peculiare che consente loro di accelerare la velocità di evoluzione in funzione della quantità di ospiti infettabili all’interno di una specie e di tentarne la colonizzazione di nuove anche se filogeneticamente lontane tra loro.

Possedendo un genoma segmentato diviene possibile in sede replicativa il trasferimento veloce di abilità biologiche con sede in specifici segmenti di Rna, assemblandole con altre in una infinità di molteplici combinazioni. Questa abilità trasformistica si traduce sia nella possibilità di colonizzare attraverso percorsi una moltitudine di specie di diverse classi zoologiche, sia di accumulo di mutazioni «lente» e casuali come avviene nel corso delle infezioni in popolazioni di specie serbatoio (come quelle degli uccelli acquatici, coadattate al virus e a basso numero di individui infettabili esposti al virus a cadenze per lo più stagionali legate ai cicli riproduttivi) sia attraverso il cambio repentino di affinità per le strutture e le porte di accesso all’ospite (recettori), così come avviene nelle infezioni contemporanee a opera di virus di specie appartenenti a classi diverse e con compresenza recettoriali diverse. Evolversi in questo «universo cellulare» dove i pianeti sono individui e le loro popolazioni un potenziale infinito non visibile con occhi molecolari, è tutt’altro che facile. La lotta per la sopravvivenza avviene su molti fronti: le battaglie con il sistema immunitario, con l’ambiente ostile quando il virus si trova al di fuori del corpo dell’ospite o quelle ancora più terribili degli scontri che avvengono all’interno della stessa specie virale tra nuove varianti che acquisendo nuove abilità, tramite le mutazioni, tendono a soppiantare quelle che le hanno precedute.

Va introdotto e corretto subito il termine «specie» in quanto in popolazioni così mutevoli, come quelle dei virus influenzali, il termine corretto che li definisce è quello di quasi specie, ovvero immaginando uno sciame di api è come se la media degli individui che si trovano nell’area centrale dello sciame siano più simili tra loro di quelli che si trovano alla periferia. Questa situazione è alquanto instabile perché condizionata dalla lotta tra i nuovi virus appena mutati all’interno della popolazione (varianti) che con l’incrementare del loro numero tendono a occupare le aree centrali di questa nuvola. Nelle specie di nuova colonizzazione da parte del virus, il turnover con la comparsa di nuovi individui (varianti) in forte competizione tra loro è particolarmente rapida. È alla base di tale velocità replicativa che si origina l’incremento potenziale di aggressività. Più alto è il numero di replicazioni del virus (tasso di replicazione) e maggiore diviene quello delle mutazioni (tasso di mutazione). Per un virus il cui acido nucleico è costituito da Rna, non è possibile intervenire per riparare qualsiasi errore accidentale avvenga nelle diverse fasi della sua replicazione.

Questi errori, o mutazioni, danno origine a virus nuovi (varianti) e mentre moltissimi di loro mancano delle abilità principali per un virus influenzale - e quindi destinati a estinguersi - in alcuni casi i virus mutati risultano più efficienti di quelli che li hanno originati e finiscono per sostituirli. L’efficienza va vista come abilità nel replicarsi in diversi apparati senza farsi aiutare dai sistemi enzimatici dell’ospite (tropismo) o come modificare affinità per i recettori dell’ospite come avviene nei cosiddetti «salti di specie» se i virus si muovono tra specie di una stessa classe zoologica (per esempio mammiferi-mammiferi), ma più eclatante ancora risultano i salti di classe dove i virus compiono balzi come quelli da uccelli (Aves) ai mammiferi (Mammalia). Osservando questa strategia da un nuovo punto di osservazione, da un lato i virus influenzali evolvono verso una ultraselezione sviluppando continuamente nuove varianti con infinite abilità (macroevoluzione), dall’altro il risultato ottenuto è quello di far sopravvivere una sorta di virus «superorganismo» in cui tutto il materiale genetico in costante modificazione si riconduce a una presenza stabile di questo gruppo di viventi all’interno delle popolazioni animali in lenta evoluzione (microevoluzione) nel pianeta. Questo concetto si riassume bene nella Red Queen hypothesis - in Alice nel paese delle meraviglie - dove la Regina Rossa spiega ad Alice (sbalordita di essersi ritrovata nello stesso posto da cui era partita dopo una lunga corsa) come nel suo mondo tutto questo fosse normale, così come lo è per un virus che dopo una serie infinita di mutazioni si trova a occupare in natura sempre lo stesso posto.

Partendo da questi i presupposti quale è la funzione «normale» di una Pandemia? Osservata all’interno del regno animale, la incontriamo sotto diverse forme solo apparentemente dissimili da quanto ciclicamente vediamo nell’uomo. Una delle principali situazioni attraverso cui i virus influenzali evolvono verso forme particolarmente aggressive e letali si ha quando incontrano nel loro percorso popolazioni animali (uomo incluso) di elevate dimensioni. Nel pianeta, la quantità di individui appartenenti a una specie presente in uno spazio è condizionata da numerose variabili che sommate tra loro costituiscono la capacità portante di quell’ambiente per quella specie. I predatori macro/carnivori e micro/patogeni sono alcuni degli elementi capaci di «contenere» le crescite demografiche delle specie, quando i fattori ambientali non siano sufficienti a farlo (ad esempio quando c’è continua disponibilità di cibo e acqua in specie gregarie che non competono per gli spazi). Già gli studiosi di inizio secolo avevano notato come la comparsa di devastanti epidemie influenzali negli uccelli, coinvolgessero ciclicamente il pollame domestico - in un contesto ambientale modificato rispetto a quello naturale - ma non le specie selvatiche.

Questo punto di osservazione consente di vedere come in un’economia globale di rapporti tra viventi, un evento pandemico animale o umano sia facilmente associato all’esplosione demografica di una o più specie sensibili. In questa prospettiva l’evento pandemico si scollega dal molecular clock biologico - capace di generarlo ciclicamente attraverso mutazioni spontanee in popolazioni di specie dimensionate dall’ambiente - ma aumenta potenzialmente di frequenza in relazione alla semplice disponibilità quantitativa di ospiti recettivi. Il fatto che l’uomo inteso come specie sarà probabilmente oggetto di pandemie con maggior frequenza che nel passato è una diretta conseguenza della sua abilità di modificare l’ambiente a proprio vantaggio e della necessità - per il rapido incremento demografico - di aumentare le sue risorse alimentari allevando animali che analogamente a lui rientrano nell’ecologia del virus (polli e tacchini per le influenze aviarie, suini per le influenze suine).

In passato si è osservato come l’emergenza di virus influenzali pandemici comparisse ciclicamente nelle popolazioni umane, intervallate da periodi interpandemici dell’ordine dei 20-40 anni. Nelle diverse pandemie il susseguirsi nel tempo di diversi sottotipi H prevalenti nell’uomo (H1, H2, H3) è tuttora motivato con l’instaurarsi, successivamente alla pandemia, di una diffusa immunità di popolazione che riduce l’opportunità per sottotipi analoghi a quello pandemico di circolare favorendo indirettamente i sottotipi non circolanti da più tempo. Nell’emergenza di un ceppo pandemico un elemento chiave è quello di possedere una struttura sconosciuta alle difese dell’ospite. Questo può avvenire attraverso percorsi di accumulo di mutazioni, ma è semplificato e rapido se si realizza tramite un radicale cambiamento della specie infettata. Se la distanza filogenetica che separa le classi rispetto le specie è di gran lunga maggiore, più difficoltoso risulta per un virus il percorso di adattamento necessario a una replicazione efficace. Anche se quindi i virus aviari, quali ad esempio A/H5N1, hanno la potenzialità di eseguire salti di classe, il fatto che siano confinati su chiavi di accesso alle cellule (recettori di tipo ά 2,3 caratteristici negli uccelli) ne condiziona l’evoluzione limitandone fortemente la capacità di trasmissione ad altri gruppi, che come nel caso dei mammiferi possiede prevalentemente recettori di tipo ά 2,6.

Paradossalmente replicarsi su grandi popolazioni aviarie determina un aumento dell’abilità replicativa nelle stesse e di conseguenza una ridotta efficienza nei mammiferi. Ecco perché nell’origine dei ceppi pandemici, rivestono un ruolo chiave specie quali il suino che grazie alle analogie strutturali con entrambi i gruppi, si frappone come ponte tra mammiferi e uccelli, favorendo le coinfezioni e il conseguente riassortimento virale.




Il sottotipo A/H1N1 è comune a molti gruppi ed è relativamente facile incontrarlo all’interno delle popolazioni aviarie selvatiche, così come all’interno della popolazione umana (lo ricordiamo tristemente per aver causato l’influenza Spagnola nel 1918-19). In questa sorta di coabitazione forzata tra uomo e specie allevate - collocate accanto ai serbatoi selvatici della malattia - non è quindi raro che virus presenti inizialmente su taxa diversi possano raggiungere l’uomo. Oltre ad essere uno dei componenti comuni della triade (H1, H2, H3) di virus influenzali tipica dell’uomo, altrettanto frequente è il suo rinvenimento nella specie suina. Le affinità cellulari tra uomo e suino fin dal passato hanno evidenziato come virus adattati all’uomo potessero infettare senza difficoltà gli allevamenti suini, e che viceversa da questi i virus adattati al suino si potesse infettare l’uomo. Da questo interscambio facilitato sono emersi in diverse occasioni ceppi potenzialmente pandemici. Tra questi spicca un A/H1N1 che nel 1976 nel New Jersey (Fort Dix) infettò molto velocemente 230 soldati, determinando quadri di grave compromissione respiratoria in 13 e provocando il decesso di uno. Il tutto si concluse con un interruzione spontanea dell’infezione, fatto che ad oggi non ha trovato giustificazione.

Si trattava di un virus apparentemente pandemico (infatti scattarono i piani di vaccinazione di urgenza negli Usa) che però interruppe la sua corsa sul nascere. Quale fattore è quindi determinante per dare inizio ad una Pandemia? L’A/H5N1 ha dimostrato che la patogenicità, ovvero la capacità di indurre lesioni (A/H5N1 presenta una letalità superiore al 60%), non sia di per se un elemento chiave e che maggiormente limitanti appaiono l’efficienza di replicazione e quella di trasmissione. Ognuna di queste abilità si colloca in specifici segmenti dell’Rna virale che sono oggetto di continue evoluzioni, da cui l’imprevedibilità anche nell’immediato di poter prevedere o gestire quanto accade nella popolazione virale. Quando nell’aprile del 2009 giunsero alla comunità scientifica internazionale le prime notizie da Città del Messico la preoccupazione fu subito grande perché quanto stava accadendo rientrava perfettamente nella comparsa di un nuovo ceppo pandemico con caratteristiche di letalità apparentemente elevate. Nelle settimane successive cifre e letalità vennero ridimensionate, ma fu chiaro da subito che A/H1N1/2009 era un nuovo ceppo con potenzialità pandemiche che trova tutta la popolazione mondiale potenzialmente infettabile. Nello spazio di alcune settimane da pochi casi umani localizzati in Messico si arrivò a un coinvolgimento crescente degli Stati Uniti, seguiti a breve dall’Australia e poi da molte altre nazioni e continenti, Europa inclusa.

L’11 giugno 2009, a poco più di due mesi dai primi casi umani segnalati, l’Oms aumentava il livello di allerta pandemico a 6, una dichiarazione ufficiale di stato di Pandemia. Nonostante le teorie probabilistiche sull’origine del virus fossero molteplici il sequenziamento di numerosi isolati consentì di definire con chiarezza che l’A/H1N1 era un virus frutto di riassortimenti genetici importanti. Il nuovo virus pandemico riuniva segmenti di Rna dell’influenza stagionale umana (A/H3N2 per la PB1), dell’influenza suina di lineaggio americano (HA, NP, e NS) dell’influenza suina di lineaggio euroasiatico (NA e MP) e delle influenze aviare di lineaggio americano (PB2, PA). Studi comparativi dimostrarono inoltre che virus estremamente simili erano già stati isolati nell’agosto 2007 nel territorio degli Stati Uniti sia da persone sia da suini con malattia clinicamente manifesta. Come in altre pandemie, la circolazione protratta del virus nel periodo che precede l’evento pandemico è un elemento di rilievo che consente a questi di adattarsi progressivamente migliorando le abilità replicative e di diffusione.

Un elemento nuovo che compare in maniera significativa in questa pandemia è legato alle dinamiche di spostamento degli uomini. Per la prima volta nella storia una vastissima rete di vie aeree interconnette popolazioni di diversi paesi e il tutto può avvenire all’interno dei tempi di incubazione della malattia o di eliminazione di virus infettanti da parte di malati più o meno sintomatici. In passato gli eventi pandemici si muovevano sul territorio, per contiguità e alla velocità di un piroscafo a vapore o di un cavallo, mezzi che non fornivano al virus grandi opportunità di circolazione (un uomo infetto elimina virus infettanti per una settimana e questi possono sopravvivere in ambienti riscaldati o a temperature ambientali di 20 °C. per tempi brevi). Oggi, in un mondo globalizzato, i virus pandemici possono circolare nel pianeta a bordo degli aerei. Nello spazio di pochi mesi la diffusione dell’A/H1N1 pandemico ha raggiunto quasi ogni parte del pianeta contribuendo a determinare la morte di migliaia di persone e la malattia in centinaia di migliaia. Quando un virus pandemico entra in una popolazione umana, il suo tasso di attacco è normalmente elevato (30-40%) mentre la letalità può essere estremamente variabile e non necessariamente costante nel tempo.

Spesso i ceppi capaci di indurre mortalità significative sono preceduti da varianti meno patogene degli stessi e questo non deve portare erroneamente a pensare che, davanti a un esordio non particolarmente aggressivo, il decorso dell’intera pandemia rimarrà invariato. Virus particolarmente aggressivi quali A/H1N1 dell’influenza spagnola del 1918, furono preceduti da varianti meno patogene per tempi relativamente lunghi. La patogenicità di un virus è spesso frutto di una evoluzione successiva favorita dalla competizione tra le varianti all’interno della popolazione del virus stesso, una sorta di vicolo cieco evolutivo che offre però un momentaneo vantaggio durante la competizione tra virus in quanto i più patogeni tendono a occupare più parenchimi e quindi a riprodursi di più. Un virus pandemico possiede l’abilità di indurre le difese dell’ospite infettato a reazioni abnormi favorendo la liberazione massiva di citochine, normali meccanismi di mediazione e comunicazione cellulare che mal controllati finiscono come conseguenza estrema per ostacolare la respirazione dell’individuo colpito. Si tratta quindi di virus che condizionano le difese dell’ospite contro l’ospite stesso e quindi è la «necessità» di un bersaglio vigoroso il motivo per cui la mortalità indotta da virus pandemici si orienta anche su soggetti di classi di età comunemente non coinvolte dai virus delle influenze stagionali.

Quanto il passato può insegnare sugli eventi pandemici e quanto può essere diverso il futuro? Sicuramente quanto accaduto nel secolo scorso colloca l’uomo in un inizio pandemico dinanzi a un evento imprevedibile che cessa di esserlo solamente all’esaurimento delle opportunità per il virus di infettare, ovvero quando gran parte della popolazione è divenuta immune. La memoria immunitaria dell’uomo è in grado di ricordare eventi pandemici e prova diretta ne è quanto sta accadendo ora. Ultrasessantenni che hanno avuto modo di incontrare in passato virus correlati a quello dell’influenza spagnola del 1918, la cui progenie ha circolato nella popolazione umana fino agli anni ‘50, si sono dimostrati resistenti all’infezione da parte di A/H1N1/2009. Abilità protettive come queste sono probabilmente all’origine degli avvicendamenti cronologici dei diversi sottotipi pandemici.

Un altro elemento che condiziona le dinamiche evolutive di una pandemia è sicuramente quello climatico. Da un lato può limitare la capacità di sopravvivenza del virus in ambiente (i virus influenzali in generale sopravvivono meno con l’aumento della temperatura), dall’altro con le basse temperature tendono a far aggregare l’uomo in ambienti chiusi, favorendo la trasmissione. In contesti chiusi si trasmette molto facilmente a diversi metri di distanza attraverso le goccioline di saliva e il contatto ravvicinato. Sotto questo profilo, A/H1N1/2009 troverà in Europa un potente alleato nel freddo della stagione invernale. L’uso iniziale degli antivirali per il trattamento dei casi clinici ha evidenziato come all’interno della popolazione virale esistano sottopopolazioni resistenti sia ai farmaci che agiscono sui sistemi ionici - che il virus usa per liberarsi dall’envelope durante l’infezione - sia ai farmaci inibitori della neuroaminidasi che dovrebbero limitare la capacità delle nuove particelle virali di lasciare le cellule in cui si sono replicati.

Un ultimo elemento di considerazione riguarda la gestione delle pandemie con interfaccia uomo animale. Le verifiche sulle popolazioni animali allevate hanno dimostrato più volte la presenza del virus pandemico in allevamenti di suini (Canada, Norvegia) così come lo stesso virus è stato rinvenuto in allevamenti di tacchini del Canada. Si tratta per ora di trasmissioni dirette da parte di uomini infetti ad animali di allevamento, ma come gestire queste biomasse se il virus pandemico si modificasse aumentando la propria patogenicità? Scenari come questi dimostrano quanto eclettico e opportunista sia un virus influenzale e come contemporaneamente possa colpire sia l’uomo sia alcune delle sue risorse alimentari animali. L'influenza A/H1N1 è la nuova pandemia che dopo 41 anni torna a fare visita alla nostra specie. Nel frattempo il pianeta ha subito forti cambiamenti e noi un rapido incremento demografico. Imprevedibili come sempre i virus influenzali proseguono la loro storia naturale perpetuando in contesti diversissimi il loro ruolo di predatori e di riequilibratori di sistemi.

Mauro Delogu, Claudia Cotti, Università di Bologna.
Maria Alessandra De Marco, Isabella Donatelli, Istituto Superiore di Sanità.
©Darwin 2009

Bibliografia

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