venerdì 5 luglio 2013

L’emblema di Min

L’emblema di Min

Sulla superficie di gran parte dei menhir custoditi nel museo di Laconi, appaiono due petroglifi sovrapposti, uno dei quali è generalmente definito come “rovesciato” o “capovolto” -lo spirito del defunto che ritorna alla madre terra-, mentre l’altro è spesso interpretato come “pugnale bipenne”.
Differenti immagini del “rovesciato” sono presenti, come noto, in alcune tombe rupestri risalenti all’eneolitico, come la tomba “Branca” di Cheremule e quella di “Sas Concas” di Oniferi.
Nella tomba di “Sos Furrighesos”, ad Anela, questa immagine si presenta invece in una forma semplificata, identica all’ideogramma geroglifico in “ka”(spirito), che gli egizi rappresentavano con le due braccia sollevate.
Per quanto riguarda il simbolo inciso sulla base dei menhir, a parte dover considerare che in una manifestazione spirituale come il passaggio dalla vita alla morte la presenza di un coltello apparirebbe fuori tema, è la stessa concezione di “pugnale bipenne” a sollevare diverse perplessità, perché se un’ascia a lame contrapposte è effettivamente esistita e poteva svolgere la sua funzione offensiva perché dotata di un manico sufficientemente lungo, un analogo pugnale sarebbe stato assolutamente pericoloso per chi lo brandiva, ma ottimo per ferirsi accidentalmente o per suicidarsi.
A prescindere da queste considerazioni, come osservato da Nicola Porcu[1] nel suo libro di prossima pubblicazione [2], questo misterioso graffito è simile agli ideogrammi geroglifici rappresentativi dell’utero femminile[3], emblema del dio itifallico Min [4], che racchiudeva in sé entrambi i principi, maschili e femminili (analoga caratteristica era posseduta da Amon-Ra, di cui Min era una manifestazione).
L’accostamento all’iconografia egizia non può sorprendere, considerate le frequentazioni delle antiche popolazioni sarde con la terra dei faraoni.
I due simboli potrebbero allora raffigurare, congiuntamente, l’anima dell’uomo che ritorna alla terra attraverso l’utero materno, dando corpo al modo di dire “torranci in su cunnu” che in lingua sarda assume un significato offensivo, ma che a quei tempi poteva invece intendersi come un auspicio di rinascita attraverso il ventre materno, inteso come fonte di vita.
Inoltre, se il menhir può considerarsi un monolite legato al culto della fertilità, l’accostamento fonetico delle parole Min (utero) e Ka (spirito), non potrebbe essere più appropriato.
Per quanto mi riguarda, ho cercato di individuare altri elementi a sostegno della tesi di Nicola Porcu che mi era parsa da subito piuttosto convincente.
Una conferma l’ho trovata nell’immagine fotografica di una statuetta bronzea conservata al Museo Nazionale di Madrid, riportata nel volume “L’Arte dei Fenici” di Sabatino Moscati e datata VI / V sec.a.C.



L’incisione verticale visibile su di essa, simile a un doppio fuso con un suo spigolo in corrispondenza della vagina, anch’essa chiaramente evidenziata, non è altro che la riproduzione schematica e ampliata dell’apparato genitale femminile -composto appunto dalla vagina, dal collo dell’utero e dall’utero- ed è straordinariamente somigliante, se ruotata di novanta gradi, al graffito che appare nella parte inferiore dei menhir di Laconi.
Ritornando a Min, questa divinità si presentava anche in forma di “ka-mut-f” = toro di sua madre, dove “ka” è il termine geroglifico che indica il toro e “mut” la madre.
Orbene, nei menhir di Laconi i segni che appaiono sulla sua superficie possono considerarsi, a mio avviso, una crittografia amunica che si aggiunge a quelle rinvenute in diversi amuleti egizi ritrovati in Sardegna e ben descritte e analizzate da Aba Losi e da Romina Saderi.
Difatti se nel menhir, simbolo di fertilità, è presente l’effige della “Grande Madre”, con il “nasino” che compare sulla sua sommità e soprattutto con l’emblema del dio Min raffigurante l’”utero” (in altri contesti, come nei menhir di Tamuli, il principio femminile è invece evidenziato da protuberanze mammillari), è altrettanto vero che la sua forma e il suo profilo rimandano a una rappresentazione fallica, sottolineata dalla presenza del “ka” (il rovesciato) che, come detto, a parte il significato di spirito, aveva anche quello di “toro”, uno degli appellativi di Min.
Sui monoliti di Laconi possono quindi leggersi le parole “ka” e “mut” della dizione “kamutef”, uno degli appellativi di Min ma anche di Amon-Ra, di cui Min era, come detto, una manifestazione (e viceversa).
Vorrei aggiungere un’altra considerazione riferita al menhir inteso come l’elemento solido che potrebbe esattamente riempire lo spazio vuoto all’interno della tholos nuragica. Se sulla superficie del menhir sono riportati i termini egizi “ka” e “min”, si potrebbe anche ipotizzare che esso voglia raffigurare lo spirito di Min (Amon/Min) che alberga dentro il nuraghe, inteso quindi come “casa del dio”.
Questa circostanza è avvalorata dal fatto che la tradizione nilotica indica la casa di Min come una sorta di tenda dal tetto conico.
Per di più, nelle “case della vita”(per-ankh), i fabbricati egizi dove i sacerdoti/sciamani apprendevano i segreti della loro arte, era presente una tenda che accoglieva le reliquie di Osiride, signore dell’occidente, che il sincretismo religioso accomunava ad Amon/Min, anch’esso signore dell’Occidente e del regno dei morti.
In un articolo di Nica Fiori del Marzo 2005, si parla di questa tenda con riferimento al papiro Salt 825, in cui è scritto che ”il dio della terra Geb sarà il suo pavimento, la dea del cielo Nut il suo soffitto….il sole deve penetrarvi”.
In questa breve frase sono compresi i nomi delle tre divinità del cielo (Nut), del sole (Ra) e della terra (Geb), il cui insieme induce a qualche riflessione.
Nica Fiori, sempre riferendosi ai “maghi” che albergavano all’interno della casa della vita, scrive che “la divinazione avveniva utilizzando un vaso pieno d’acqua….l’acqua era ritenuta un mezzo eccellente per comunicare con il cielo e con il mondo intermedio. Altre volte era lo stesso mago a cadere in un sonno ipnotico”.
L’esistenza di un pozzo all’interno dei nuraghi, o comunque la costante presenza di una vena d’acqua o anche di vasi come quello rinvenuto all’interno del nuraghe Arrubiu, appositamente forato per consentire il deflusso, potrebbe giustificare una profonda analogia tra le case della vita e gli stessi nuraghi dove, alla presenza del sacerdote/sciamano, è presumibile che si svolgessero riti ordalici connessi al culto dell’acqua, e pratiche d’incubazione, elementi tipici dello spirito religioso delle nostre antiche popolazioni [5].


[1] Nicola Porcu è Ispettore onorario della Soprintendenza per i beni subacquei delle ex Province di Cagliari e Oristano, nonché sommozzatore professionista;
[2] “Hic-Nu-Ra, racconto di un’altra Sardegna”

[3] E’ interessante osservare come nell’antico Egitto fosse in uso la mummificazione dell’apparato genitale femminile delle donne più altolocate, nella convinzione che in esso si celasse il segreto della rigenerazione della vita

[4] Min, in associazione con Amon, dio dell’occidente e del mondo dei morti, darà vita ad Amon-Min, dio itifallico della virilità e della potenza rigeneratrice.

[5] Cfr.: Raffaele Pettazzoni: “La Religione Primitiva in Sardegna”


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